Cinema

Festival di Venezia 2018, The Otherd Side of Wind: il film incompiuto di Orson Welles è un guazzabuglio

Un pesantissimo filmone di due ore che spesso gira a vuoto mescolando magniloquenza compositiva, strampalata e astratta rappresentazione della cultura giovanile dell’epoca (il girato è tra il 1970 e il '76), e una quantità di nudi e copule che davvero non si addicono al genio che conosciamo e amiamo

di Davide Turrini

L’hanno ritrovato, ma potevano anche lasciarlo dov’era. Chi ieri sera si è avventurato tra la sala Darsena e la Sala Perla del Festival di Venezia edizione 75 per vedere le due proiezioni dell’Orson Welles riesumato dall’oblio, The other side of the wind, non deve avere vissuto un’esperienza molto convincente. C’è chi dopo dieci minuti ha strabuzzato gli occhi dicendo: “Hey, ma questo è un film di Russ Meyer!”. O c’è chi ha sonoramente salutato la sala anticipatamente. Perché, dopo le due ore di stordimento e sorpresa, di The other side of the wind rimane soprattutto la penzolante curiosità a vuoto del transfer collettivo della comunità cinefila.

Guazzabuglio di punti di vista e brulicanti presenze in scena, esperimento visionario low budget tipico dell’ultimo periodo wellesiano, trip psichedelico e frammentato dal montaggio incalzante che respinge più che avvincere, The other side of the wind è sì un film geneticamente alla Welles, soprattutto dall’anima beffardamente noir e ghignante, come nella megalomania dell’outsider che basta sé stesso. Ma è anche un pesantissimo filmone di due ore che spesso gira a vuoto mescolando magniloquenza compositiva, strampalata e astratta rappresentazione della cultura giovanile dell’epoca (il girato è tra il 1970 e il ’76), e una quantità di nudi e copule che davvero non si addicono al Welles che conosciamo. 

Insomma non siamo dalle parti del diamante finito impolverato o dei negativi incatenati alla cattiveria di avidi produttori che sparsi per il mondo detenevano brandelli di girato. Semmai l’operazione Netflix sa di rattoppo e rilancio pur di parlare del mito. Le vicissitudini produttive di questo film le conosciamo tutti . Sappiamo del rifiuto di Cannes perché era una produzione Netflix. Sappiamo poi della grande attesa di vedere un film di Welles in sala, epifania cinematografica per tanti, visto che a memoria l’ultimo lungometraggio di Welles uscito nelle sale italiane, L’infernale Quinlan, è stato distribuito in edizione restaurata alla fine degli anni novanta, e che alle Giornate del cinema muto di Pordenone nel 2013 si è recuperato realmente il primo Welles del 1938, Too much Johnson (66 minuti).

Ma, come dicono effettivamente i produttori Filip Jan Rymsza, Frank Marshall, e Netflix, nei titoli di testa: “Questo è un tentativo di onorare la memoria di Welles”. Appunto, un tentativo. Realizzato su 100 ore di girato, montate praticamente ex novo da Bob Murawski. La storia inizia in medias res tra i capannoni degli studios hollywoodiani con il regista Jake Hannaford (interpretato da John Huston) inseguito da decine e decine di intervistatori. Chi con videocamere dai formati più disparati, chi con taccuino tra giornalisti tv e riviste. La crew del regista invita tutti a seguire Jake nella sua villona con piscina per il party di compleanno dei suoi 70 anni. In mezzo al caos degli invitati curiosi e chiacchieroni inizia anche una specie di proiezione dell’ultimo film che Hannaford sta tentando disperatamente di concludere.

La moltiplicazione dei punti di vista, le decine di macchine da presa al party, creano un caos visivo di inaudito spaesamento. Quando poi i mille occhi del party cominciano a essere mescolati sia al girato finzionale con Oja Kodar (moglie all’epoca di Welles) protagonista muta completamente nuda avvinghiata a Robert Random in mezzo a scenari antonioniani, sia alle massime wellesiane tranchant dette dal suo doppio Huston/Hannaford (“copiarsi a vicenda va bene, ma mai copiare se stessi”, “mezzo uomo è meglio che niente”, tra le altre), che dette una volta fanno tanto aforisma ma dette sedici volte in due ore, ecco partire la fase stordimento.

Insomma, nonostante le buone intenzioni del parentado e degli amici più cari (su tutti Peter Bogdanovich), l’interrogativo rimane. Questo qui è davvero un film di Welles? Davvero senza budget e mezzi, ma armato solo del desiderio monomaniacale di affermare la propria marginalità al sistema, Welles realizzava quei film che avrebbe realmente voluto? Se avevamo dubbi sulla paternità di Kubrick per Eyes Wide Shut, figuriamoci per The other side of the wind.

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