I numeri in chiaro della convenzione con Autostrade hanno permesso di farsi finalmente un’idea più precisa dei privilegi di natura  economico-finanziaria che lo Stato ha concesso alla società della famiglia Benetton. Balza agli occhi soprattutto quel 10,21% di rendimento lordo garantito sul capitale (6,85% netto) che è un’enormità se raffrontato a ogni altro tipo di investimento, tanto più che l’attività della concessionaria è sostanzialmente a rischio zero. Eppure si tratta solo di un conto parziale: a consuntivo andrebbe aggiunto anche ciò che negli allegati non viene esplicitato e che però ha concorso per decenni a gonfiare i profitti del concessionario, vale a dire il fatto che la maggior parte dei lavori e della manutenzione della rete vengono fatti “in house”, cioè da aziende che fanno capo allo stesso gruppo cui appartiene Autostrade e che si trovano ad avere fatturato e utili garantiti in barba a ogni concorrenza e senza nessun controllo sui costi effettivi sostenuti.

La questione degli affidamenti “in house” non è mai stata seriamente messa in discussione dai governi italiani (unica eccezione l’alzata di scudi di Antonio Di Pietro quando occupava la poltrona di ministro delle Infrastrutture) ed è talmente pratica comune – come i conflitti d’interesse – che nelle convenzioni stesse viene indirettamente recepita come il modus operandi più efficiente. Per rendersene conto basta leggere pochi passi dell’articolo 30, quello che regola le penali in caso di ritardi nella progettazione e nell’esecuzione delle opere: “Resta inteso che la durata delle singole fasi di diretta competenza del concessionario è stata determinata nel presupposto che le attività di progettazione siano svolte direttamente dal concessionario medesimo, attraverso proprie società di progettazione avvalendosi dell’istituto del cosiddetto controllo analogo”.

Chiaro no? Il cronoprogramma previsto per l’esecuzione delle opere dà per scontato che a progettarle (e a realizzarle, almeno in gran parte) sia il concessionario stesso. Non solo: se il mancato rispetto del cronoprogramma concordato con il ministero può dare luogo alla richiesta di penali, sempre all’articolo 30 della convenzione stabilisce che “il cronoprogramma dei lavori come sopra definito potrà subire modifiche in conseguenza di eventuali perizie di variante predisposte dal concessionario ai sensi dell’articolo 132 del D.Lgs. 163/2006 ed approvate dal concedente”. Insomma, le famose varianti in corso d’opera che così spesso hanno consentito di gonfiare i costi a tutto vantaggio di chi esegue i lavori (le ditte del concessionario) allungando i tempi ed evitando persino di pagare penali per i ritardi.

In effetti, basta dare un’occhiata all’ultimo bilancio disponibile di Autostrade per l’Italia per rendersi conto che penalità e sanzioni non rappresentano certo una voce rilevante: il fondo per sanzioni e penali da convenzione unica ammontava appena a 3,178 milioni di euro nel 2016 e a 4,3 milioni nel 2017, di cui peraltro buona parte (2,5 milioni) è relativo alle “penali applicate (o che potrebbero essere applicate in base alle non conformità riscontrate) per gli anni dal 2009 al 2015 […] in relazione al mancato rispetto dei parametri  di cui al piano annuale di monitoraggio previsto nella convenzione medesima”. Briciole insomma, che non è nemmeno detto vengano poi pagate dato che la società ha contestato alcuni dei rilievi mossi ed è ricorsa al Tar.

A vigilare sono i tecnici del ministero delle Infrastrutture. E qui si pone, almeno potenzialmente, un problema che in altri settori, come quello bancario, ha contribuito non poco a distorcere il rapporto controllori-controllati: conflitti d’interesse e porte girevoli. La questione merita approfondimenti tanto più che dal 2002 è cambiato anche il meccanismo di riequilibrio dei “benefici finanziari ritardati” disposto dall’Allegato L della convenzione. Fino al 2002 Autostrade era tenuta ad accantonare attualmente in un apposito fondo di bilancio “l’importo conseguente alla mancata o ritardata esecuzione delle opere”. Detto fondo serviva a evitare che il concessionario traesse “benefici economico-finanziari dalla mancata o ritardata realizzazione degli investimenti”. Non solo: l’Allegato L stabiliva anche che “le risorse appostate su tale fondo sono destinate a nuovi investimenti su disposizione del concedente (cioè lo Stato, ndr)”.

Tale fondo però negli ultimi anni è sparito dai bilanci di Autostrade perché appunto nel 2002 è cambiato il meccanismo e la società può ottenere gli aumenti tariffari di anno in anno solo nel caso in cui il cronoprogramma dei lavori sia rispettato, altrimenti no. Il risultato è che ora le eventuali penali per i ritardi sono quelle molto più basse stabilite dall’articolo 30 della convenzione (che, come abbiamo visto, corrispondono complessivamente a poco più di 4 milioni, di cui 2,5 attribuibili a non conformità rilevate nel piano annuale di monitoraggio) e nulla si dice a proposito di nuovi investimenti da disporre su indicazione del ministero.

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