La catastrofe del ponte Morandi, con il suo terribile carico di morti e devastazioni, ha riportato alla luce elementi di giudizio deliberatamente occultati da decenni; la cui potenza demistificante è a forte rischio di essere neutralizzata dal solito giochino de “l’uomo nero”: la colpevolizzazione a carico di un unico capro espiatorio. Quando tutti i ballerini coinvolti nella danza macabra che ha preceduto il 14 agosto – la società Autostrade, il ministero competente, le amministrazioni locali liguri che si sono succedute nei decenni scorsi e la strumentalizzazione da parte di demagoghi che attizzavano/cavalcavano la mobilitazione ribellistica di comitati di base impauriti in quanto disinformati (e un po’ affetti dalla sindrome del complotto) -, invece, si portano appresso un pesantissimo carico di responsabilità, di cui vorrebbero sgravarsi grazie allo scarica barile.

Perché ormai è assodato che tutti erano perfettamente a conoscenza della minaccia incombente e a nessuno dovrebbe essere consentito di chiamarsi fuori, pavoneggiandosi nelle magagne altrui.

Sono decenni che i privati fanno carne di porco del sistema autostradale avuto in concessione. Ma nello stesso tempo sono evidenti le collusioni del soggetto pubblico preposto al controllo delle manutenzioni; le amnesie degli attori politici locali e nazionali, titolari del ruolo di decisori in una questione insabbiata già dagli anni Novanta. Per quieto vivere o che altro? Tutto questo mentre saltano fuori rapporti ufficiali sull’avviato collasso dell’infrastruttura e – a fronte – proposte di soluzioni alternative. Come ci ha raccontato Ferruccio Sansa ricostruendo la stupefacente storia della “Bretella” (poi denominata “Gronda”) progettata una trentina di anni fa e accantonata dall’allora sindaco di Genova; come ho provato a raccontare su questo blog con l’inconcludente vicenda del debat public di dieci anni fa.

Giochi irresponsabili al rimando cui ha dato una valida mano (a propria insaputa) il confusionismo superstizioso di chi identifica qualsivoglia piano infrastrutturale nel demonio. Per cui durante l’amministrazione Doria il capogruppo cinquestelle in consiglio comunale dichiarava che il Ponte Morandi sarebbe durato cent’anni e sino alla scorsa settimana il ministro Toninelli negava l’urgenza di mettervi mano. Un pregresso che il ritorno alla logica degli impeachment di Luigi Di Maio (da Mattarella a Benetton) pretenderebbe di azzerare.

Diciamocelo francamente: nella vicenda il più sano ha la rogna. Nonostante il depistaggio che vorrebbe riproporre l’antitesi tra pubblico e privato come in una guerra di religione. Ed è un’altra rimozione della verità. Certo, siamo alla constatazione fallimentare delle operazioni di privatizzazione italiane in cui lo Stato, nel decennio 1990-2000, cedette imprese pubbliche per un totale di 84 miliardi di euro; facendo scrivere a Luciano Gallino che con ciò si pose “a disposizione delle grandi imprese (private) nuovi ampi spazi dell’organizzazione sociale in cui effettuare investimenti ad alta redditività e basso rischio” (L’impresa irresponsabile, Einaudi). La sostituzione dei monopoli pubblici con quelli privati. Ma in tale denuncia ci si dimenticano le motivate polemiche dei decenni precedenti contro la burocratizzazione e il clientelarismo che avevano reso esecrabile l’imprenditore pubblico.

Ora si vorrebbe ritornare ai fasti del panettone di Stato? Dibattito arcaico, se già durante la prima amministrazione Clinton si discuteva di “reinventing government”: pubblico e privato alleati in una logica di sussidiarietà, con la politica che svolge il ruolo della regia strategica e l’amministrazione esercita il controllo in corso d’opera e a consuntivo dei piani concordati. Pura fantascienza, sotto il Ponte Morandi e nei nostri Palazzi del potere.

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