La sera, tardi, si poteva incontrare Kofi Annan, segretario generale delle Nazioni Unite, che risaliva a piedi la First Avenue dal Palazzo di Vetro verso la propria abitazione, senza corte e senza scorta – almeno visibile -, anche nel clima dell’America sotto attacco dopo l’11 settembre 2001. Negli incontri con i giornalisti, era disponibile con tutti e misurava le parole delle risposte, cercando, senza asprezze, più la precisione che la battuta d’effetto. Ma non era certo una persona alla mano: quasi un aristocratico della diplomazia – del resto, era l’erede di una famiglia dell’aristocrazia tribale del suo Paese, il Ghana – , curato nella forma e preparato nella sostanza, che non alzava mai la voce e tanto meno batteva pugni sul tavolo.

Annan, morto sabato 18 agosto a Berna, in Svizzera all’età di 80 anni, dopo breve malattia, era uno di quei (rari) protagonisti della scena pubblica internazionale che, quando se ne vanno, tutti, ma proprio tutti, coloro che ne furono interlocutori ne parlano bene, anche quanti lo ebbero antagonista.

Messaggi di cordoglio e d’apprezzamento vengono da Antonio Guterrez, attuale segretario generale dell’Onu, che ricorda “l’orgoglioso figlio dell’Africa” e da Ban ki-mon, che fu il suo successore, da Clinton e da Obama -“Incarnò lo spirito delle Nazioni Unite” – e da Putin – “Un uomo meraviglioso” -, da Macron e dalla Merkel, dall’Ue e persino da George W. Bush, che si scontrò con la sua fermezza e che ora dice: “Un uomo gentile”. Manca, per ora, la voce di Donald Trump, ma il silenzio del negazionista del multilateralismo non stupisce.


In questi casi, l’unica cosa che si può rimproverare allo scomparso – a parte gli insuccessi, ché ce ne sono sempre – è un eccesso di diplomazia o di essere stato troppo accomodante. Oppure, come fa Rory Stewart su The Guardian, in un articolo un po’ malevolo, la vanità del collezionista di premi e incarichi.

Ghanese formatosi negli Usa e in Svizzera, Annan entrò all’Onu nel 1962 e arrivò a esserne – primo e finora unico funzionario giunto al vertice dell’organizzazione e anche primo e finora unico nero – segretario generale per due mandati, dal gennaio 1997 al dicembre 2006, dopo essere stato dal 1993 responsabile delle missioni di pace. Tre i giorni di lutto decretati dalle Nazioni Unite, nel ricordo del loro settimo leader; una settimana di cordoglio in Ghana.

Era un uomo da scrivania più che da terreno: un tentativo di lavorare nel suo Paese non riuscì. Era multilateralista prima che africanista: non aveva sul suo popolo il carisma di un Nelson Mandela, ma aveva l’abilità e il fascino del grande diplomatico. Con lui, l’Africa sedette al tavolo di tutte le grandi decisioni internazionali. E lui considerava gli Obiettivi di Sviluppo sostenibile il fiore all’occhiello del suo mandato.

Annan ottenne nel 2001 il Nobel per la Pace, insieme alle Nazioni Unite, per l’impegno umanitario, nonostante, proprio sul fronte dell’azione umanitaria e degli “interventi per proteggere” – una linea che avrebbe poi teorizzato -, l’Onu e Annan avessero accusato negli anni Novanta grossi smacchi: la missione in Somalia nel 1993, quella in Ruanda nel ‘95, la strage di Sebrenica nel ’95 restano pagine nere, che, in situazioni e contesti molto diversi, lo segnarono profondamente. Ma il premio gli fu consegnato quando, dopo l’attacco all’America dell’11 Settembre, il mondo aveva ormai voltato pagina. Sulla sua agenda c’erano, accanto all’impegno per lo sviluppo e all’azione umanitaria, nuove priorità: la lotta al terrorismo e la gestione di una rinnovata frenesia d’interventismo americano.

Eletto nel 1996 come “candidato degli Usa” dopo lo strappo di Washington sul rinnovo dell’egiziano Boutros BoutrosGhali, Annan seppe liberarsi dei condizionamenti che l’avevano portato al vertice dell’Onu. E proprio dopo l’11 Settembre, diede di sé le prove migliori: condiscendente con gli Usa sull’operazione in Afghanistan, decisa “per le vie brevi” dopo l’attacco e mirata a colpire i santuari di Al Qaeda – che aveva architettato, compiuto e rivendicato gli attentati – e il regime dei talebani che li proteggeva; fermo contro l’invasione dell’Iraq, definita “un atto illegittimo” dal punto di vista del diritto internazionale.

Annan tenne fermo il punto nonostante le pressioni dell’allora presidente degli Stati Uniti George W. Bush, nonostante il rapporto dell’Onu con gli Usa scendesse al punto più basso, prima d’ora. E proprio di questo gli rendono merito gli Elders (i Saggi) il gruppo impegnato a promuovere la pace nel mondo fondato da Mandela e dal 2013 presieduto da Annan: “È stato – ricordano in una nota – un costante difensore dei diritti umani, dello sviluppo e dello stato di diritto (…) S’è impegnato tutta la vita per la cause della pace e va ricordato per la sua ferma opposizione all’aggressione militare, specie all’invasione dell’Iraq a guida Usa nel 2003″.

Il suo secondo mandato venne lambito dallo scandalo “oil for food“, scoppiato quando il programma dell’Onu per consentire all’Iraq sotto sanzioni di vendere petrolio per sfamare i civili si trasformò in una tangentopoli che coinvolse funzionari amici e lo stesso figlio Kojo. Annan, messo sotto inchiesta, fu scagionato. Tra le ultime missioni, dopo aver lasciato il Palazzo di Vetro, ci sono stati i sei mesi spesi nel 2012 per fermare le stragi in Siria e la guida di un’inchiesta sulla crisi dei Rohingya in Birmania.

Ci sono pure messaggi di cordoglio italiani: da Romano Prodi, di cui fu interlocutore in più ruoli, e da Emma Bonino – “grande alleato dei radicali nella battaglia per la Corte penale internazionale” -, oltre che dalle Istituzioni. Alessandra Baldini ricorda sull’Ansa un episodio che i più hanno ormai dimenticato: come capo dei caschi blu, Annan si fece nel 1993 la fama di “nemico dell’Italia”, dopo le critiche mosse al contingente italiano in Somalia. Finì con il richiamo del generale Bruno Loi, comandante italiano a Mogadiscio: si sarebbe rifiutato di coordinarsi con l’Onu, preferendo rivolgersi a Roma.

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