Il crollo di un ponte ha una valenza simbolica enorme. I ponti mettono in contatto territori, persone, merci. In tempo di pace vengono costruiti, in tempo di guerra distrutti. Il crollo del ponte di Genova nella sua drammaticità ci fa sentire più insicuri e soli. Siamo vittime di una guerra che stiamo facendo a noi stessi. Pensate all’antico ponte ottomano di Mostar distrutto a colpi di cannone nel 1993 dalle unità croate che combattevano contro i musulmani bosniaci. Ora, del tutto ricostruito, è un patrimonio dell’Unesco ma il suo crollo è rimasto come l’immagine più emblematica di un conflitto che ha diviso comunità, storie, appartenenze e isolato un intero popolo.

Che in tempo di pace, in Italia, crolli un ponte così importante è un fatto impensabile e nella sua tragedia assomiglia a un episodio di guerra o a un atto terroristico. Possiamo accettare che un terremoto ci possa colpire all’improvviso perché è un evento naturale. Non possiamo accettare che un ponte fatto dall’uomo venga giù in un mattino di pioggia, la vigilia di Ferragosto. Con i duecento metri di asfalto e di cemento e i tanti, troppi automobilisti precipitati nel vuoto come in un film catastrofico americano, è crollato un’intera organizzazione di città, un sistema viario fondamentale che teneva uniti 600mila abitanti distribuiti lungo venti chilometri e consentiva il passaggio di merci e persone da una parte all’altra dell’Italia, dalla Francia e dalla Spagna.
In gioco non è solo il destino di Genova, il quinto capoluogo più importante italiano e primo porto nel mediterraneo, è l’idea stessa di comunità che, ferita e vinta dal dolore, ora deve ritrovare fiducia nelle proprie capacità progettuali, e reagire.

Troppi i ponti crollati anche recentemente (cinque negli ultimi cinque anni) per non pensare che non si tratta di casi ma di un intero sistema che non è stato costruito e manutenuto in modo efficiente. Se le strade crollano, lo Stato non ha più nessuna credibilità presso i cittadini e in un momento come questo in cui c’è già un grave scollamento tra società e classe politica, ciò può essere devastante per la tenuta democratica del paese.

Questo governo e altri che seguiranno devono garantire un investimento nel tempo eccezionale, con il sostegno dell’Europa, per mettere in sicurezza un territorio già martoriato da speculazione edilizia, abusivismi, alluvioni, terremoti, incendi. Un progetto nazionale di ampia portata che potrebbe costituire un eccezionale volano economico, con ricadute molto positive anche sull’occupazione. Un’occasione straordinaria per tutta la classe politica, soprattutto adesso, potendo contare su un sentimento diffuso di comunione, nel dolore. La città che conosciamo, così ferita, fragile, minacciata da una collina arida e incombente e un mare profondo e non facile, esposta a forti perturbazioni (Genova è una delle città più piovose d’Italia), costruita male con insediamenti industriali a rischio (le raffinerie di petrolio con condutture passanti in mare e vicino alle abitazioni e alle strade, causa di incidenti anche drammatici, orientarono la crescita economica della città negli anni Sessanta), può essere oggi ripensata in ragione di uno sviluppo, peraltro già in parte avviato, più sostenibile, a partire dal suo sistema viario.

La città ha bisogno non solo di una legge speciale invocata dal presidente della regione Toti per affrontare l’emergenza, ma anche di una nuova pianificazione urbanistica, industriale e infrastrutturale. Si provi allora a costituire un gruppo di lavoro che traguardi un’idea di città per i prossimi decenni, avendo ben in mente gli obiettivi stabiliti dall’Onu nella conferenza di Parigi del 2015, che vincolano tutti i paesi occidentali a ripensare l’attuale modello economico per una riconversione da attuare già entro il 2030. Una sfida che possiamo cogliere a partire da questa immane tragedia per lanciare da Genova un nuovo ponte verso un futuro più sostenibile e sicuro.

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