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Ultimo aggiornamento: 14:22 del 14 Luglio 2018

In Italia da 7 anni, l’attrice e regista tunisina Mariam Al Ferjani rischia l’espulsione: “Vivo una situazione kafkiana”

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“Vivo in Italia da 7 anni, ho imparato la lingua, ho studiato cinema qua, ma ho avuto un problema il permesso di soggiorno che mi fa vivere una situazione kafkiana“, racconta l’attrice tunisina Mariam Al Ferjani, a margine dell’anteprima all’Ortigia Film Festival del film “La bella e le bestie”, direttamente dalla sezione Un Certain Regard del Festival di Cannes. Il film, di cui Al Ferjani è protagonista, esce in sala il 27 luglio.

Diplomata a Milano dove si è specializzata fino a diventare regista, contratto a tempo indeterminato da interprete, nel 2015 è stata convocata al posto di polizia di frontiera a Malpensa. “Quando ho finito la scuola, volevo prolungare il mio permesso di soggiorno – spiega – ma non me lo hanno fatto perché non avevo studiato in una università. All’epoca lavoravo anche con un regolare contratto e mi sono ritrovata licenziata dal lavoro con la polizia che mi chiede di lasciare l’Italia entro 10 giorni. Una situazione assurda”. Le autorità non le hanno riconosciuto né il titolo di studio né il contratto di lavoro. L’attrice è in attesa del secondo ricorso, la cui udienza è stata fissata a settembre 2018.

“Spero di vincere, dice ancora incredula di essere incappata nelle maglie della giustizia. Guarda con un po’ di preoccupazione al futuro in Italia: “Con il nuovo governo ho il timore che le cose non miglioreranno, anzi peggioreranno. Ma volendo vedere il lato positivo, posso dire che ora c’è più consapevolezza dei temi dell’immigrazione e dell’integrazione. Questo nuovo governo è un ottimo esercizio per tutti. A mio avviso la volontà degli immigrati di inserirsi non si può mettere in discussione, se si va in un posto è ovvio che si voglia parte di quella società”.

Prima di fare cinema, studiava medicina. “Mi è capitato vedere delle vittime di stupro, quello che mi ha colpito in quei casi era che la cosa più difficile per loro fosse proprio farsi riconoscere come vittime. Pensavo fosse un problema della mia società, invece ho poi capito che era universale. C’è sempre qualcuno che dice: ‘Era nel momento sbagliato’ o ‘Era vestita nel modo sbagliato’. Tutti modi per addossare alla vittima una parte della responsabilità di quello che ha subito.

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