Segnali contrastanti sono lanciati dagli attori di quel grande palcoscenico che è il mondo del credito cooperativo.

Ci siamo già chiesti: ma chi vuole davvero la riforma del credito cooperativo stabilita con la legge n°49 del 8 aprile 2016? Ricordiamo che la riforma del credito cooperativo ha praticamente prodotto una balcanizzazione degli assetti riunendo le circa 300 Bcc del nostro Paese in tre galassie: due grandi gruppi facenti capo all’area romana di Iccrea (160 circa) e ai “trentini” della Cassa Centrale Banca di Trento (100) e uno più piccolo (50 circa) facente capo alle realtà della provincia di Bolzano che segue una strada propria.

Tante le voci che hanno chiesto di congelare l’entrata in vigore della legge per una revisione sostanziale. Le numerose istanze, soprattutto di presidenti e direttori generali delle Bcc, sono state addirittura prese in considerazione dal nuovo governo che ha annunciato che sarà necessario apportare modifiche alla riforma. Poi in settimana sfogliando i quotidiani (tra cui anche il Fatto), mi imbatto in una pagina pubblicitaria acquistata dal Gruppo Cooperativo della Cassa Centrale Banca in cui la maggior parte delle banche aderenti manifestano il sostegno alla riforma auspicando che l’avvio della operatività dei nuovi Gruppi Bancari Cooperativi sia assicurato in tempi brevi e senza alcun segno di indecisione, al più tardi per il 1° gennaio 2019.

Rimango perplesso di fronte a questo repentino cambio di umore dei rappresentanti delle banche di territorio. Da una analisi più approfondita rilevo che ben 86 banche del Gruppo hanno aderito alla iniziativa promozionale e solo 14 non si sono dichiarate d’accordo.

Ma quale è lo stato di salute di queste banche?

A tal proposito mi sono servito di una interessante indagine, pubblicata circa un anno fa da L’Espresso ed elaborata da R&S, la società di ricerche e studi di Mediobanca, sui bilanci del 2015 di un campione di 377 piccole banche. Il campione è ordinato in base a un punteggio, a un ordine di gravità, cui corrisponde un colore. Sono indicate in rosso le banche a più alto rischio fallimento, in giallo quelle a medio rischio e in verde quelle a basso rischio. Alla formazione del punteggio concorrono quattro indicatori:
1. l’incidenza dei crediti deteriorati netti sul patrimonio netto tangibile della banca;
2. l’incidenza delle sofferenze sullo stesso patrimonio netto;
3. la svalutazione dei crediti deteriorati sui ricavi;
4. il cosiddetto cost/income, cioè il rapporto tra costi operativi e ricavi, il principale indicatore di efficienza.

Negli ultimi due anni qualcosa è cambiato, certo. Alcuni istituti hanno deliberato, proprio a causa dei cattivi risultati del 2015, “programmi autonomi di irrobustimento patrimoniale”; altri sono stati assorbiti da banche meno gracili con “percorsi di messa in sicurezza” che ne evitassero il fallimento. E quindi oggi quei dati sono parzialmente superati. E leggermente migliorati. Ma solo moderatamente, appunto.

Pertanto, pur volendo fare la tara, si scopre che delle 14 banche che non hanno voluto sottoscrivere l’annuncio pubblicitario solo una presenta un rischio elevato mentre tra le 86 banche “favorevoli” alla riforma – ben il 63% – è considerato a rischio: un quarto abbondante a rischio elevato e oltre un terzo mediamente rischioso. Non è che forse le banche virtuose non si lasciano facilmente tirare per la giacca e chiedono alla riforma di meglio chiarire il concetto di risk based e i vantaggi derivanti appunto per gli istituti più efficienti?

Con il contratto di coesione, la singola banca sottoscrive infatti le regole della propria integrazione modulate in ragione della propria meritevolezza: il grado di autonomia verrebbe modulato in funzione di un approccio basato sul rischio (risk based approach), sulla base di parametri oggettivamente individuati. Quali appunto?

E poi non è che forse alcuni esponenti delle Bcc virtuose hanno intravisto nella sostanziale unificazione del sistema delle Bcc un’opportunità di accrescimento del personale potere dei rappresentanti delle federazioni e vogliono essere coinvolti nei processi di scelta della nuova governance?

Piuttosto che spendere soldi in pubblicità per sostenere una iniziativa che ha i prodromi di un nuovo ed interessante “poltronificio”, non sarebbe il caso di impiegare quelle disponibilità per commissionare una indagine di custromer satisfaction per verificare se i soci delle Bcc, nate intorno ad un coerente insieme di principi etici e solidaristici, sono d’accordo alla riforma?

 

Riceviamo e pubblichiamo la seguente rettifica

Nel blog di Vincenzo Imperatore su “Il Fatto Quotidiano.it” dal titolo “Bcc, a tifare per la riforma sono soprattutto le banche a rischio. Un caso?”  sono riportati, a sostegno della tesi sostenuta nel titolo, dati che non rispondono a realtà.

Intanto l’equazione banche a rischio = tifo per la riforma è del tutto infondata. La riforma non ha natura emergenziale, mira a rafforzare la capacità di prevenzione delle crisi e a potenziare la competitività delle singole BCC. Quindi è nell’interesse di tutte, ma soprattutto delle BCC  sane che vorrebbero evitare di pagare a piè di lista per eventuali casi di crisi e vorrebbero poter competere ancora meglio con investimenti concentrati. Si vadano poi a vedere i bilanci 2017. L’autore fa riferimento ad una indagine pubblicata dall’Espresso ormai più di un anno fa, che a sua volta si basava su una indagine Mediobanca su bilanci 2015. Due anni e mezzo fa.

Ogni opinione è legittima, ma sarebbe importante suffragarla con dati aggiornati. Inoltre, le categorie utilizzate in quell’indagine, che fortemente confutammo, sono in parte discrezionali e discutibili perché insensate rispetto alle finalità di una banca mutualistica.

A partire dal numero delle  BCC che ad oggi sono 278 (dopo un significativo percorso di concentrazione senza precedenti per velocità e intensità: sono difatti poco meno di 80 le BCC che sono state oggetto di fusione  in soli tre esercizi), per passare ai dati sull’incremento della raccolta (+ 1,6 per cento contro il – 2,2 del resto del sistema bancario) e degli impieghi (+0,7 per cento a fronte di un -1,8); sulla solidità patrimoniale (un CET1 medio di sistema superiore al 16%) e soprattutto rispetto al grande miglioramento della qualità del credito: al dicembre  2017 i crediti deteriorati complessivi lordi della BCC si sono ridotti del 10,5% su base d’anno  (- 18,1% nel resto della industria  bancaria ). Anche la variazione annua delle sofferenze lorde è di segno ampiamente negativo (-9,2%) così come le inadempienze probabili sono risultate  in progressiva diminuzione negli ultimi dodici mesi (-10,6% su base d’anno).

Questi sono i fatti. Che poi la riforma di sistema sia complessa e che un sistema di autonomie come il Credito Cooperativo possa avere al proprio interno opinioni discordanti, che si esprimono in forme differenti, rientra nelle normali dinamiche democratiche di confronto. Che non potranno comunque non avere il connotato comune della salvaguardia della esperienza ultrasecolare della mutualità bancaria, che rappresenta un valore insostituibile per il Paese. 

Marco Reggio
Ufficio Comunicazione Federcasse
Fed. Italiana BCC e Casse Rurali

Risposta dell’autore

Con riferimento alla lettera del 8 luglio, si fa presente che nel post è specificato che: “Negli ultimi due anni qualcosa è cambiato, certo. Alcuni istituti hanno deliberato, proprio a causa dei cattivi risultati del 2015, “programmi autonomi di irrobustimento patrimoniale”; altri sono stati assorbiti da banche meno gracili con “percorsi di messa in sicurezza” che ne evitassero il fallimento. E quindi oggi quei dati sono parzialmente superati. E leggermente migliorati. Ma solo moderatamente, appunto. Pertanto, pur volendo fare la tara, si scopre che…”.

Faccio inoltre presente che i dati forniti da Federcasse sono assemblati e di sistema. Mi farebbe pertanto piacere ricevere, per un confronto costruttivo, dati dei parametri presi in considerazione da Mediobanca aggiornati per singola banca.

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