Anche quest’anno, i dati Eurostat danno all’Italia la bandiera di capolista della speciale classifica europea della presenza dei Neet sul totale dei giovani di età compresa fra i 18 e i 24 anni. I Neet sono i giovani che non lavorano e non studiano. Si tratta di un aggregato molto ampio all’interno del quale c’è di tutto. Ci sono coloro che hanno abbandonato gli studi prima di conseguire la scuola dell’obbligo o solo con la scuola dell’obbligo o poco più, ma anche i laureati (soprattutto in materie umanistiche) le donne che hanno deciso di sposarsi e di avere figli e smettono di cercare attivamente. I Neet sono soprattutto nel Centro-Sud, ma c’è un nucleo corposo anche nel Centro-Nord e persino a Milano.

Ci si può chiedere come mai abbiamo la percentuale di Neet più alta d’Europa. La spiegazione del fenomeno è in quello che definisco il gap di esperienza lavorativa dei giovani. I nostri giovani hanno un’istruzione crescente ma quasi nessuna esperienza e hanno una grande difficoltà a costruire competenze lavorative. Questo dipende dalla natura sequenziale del nostro sistema di istruzione che assume come propria missione la creazione di istruzione di carattere generale demandando all’entrata nel mondo del lavoro la formazione dell’esperienza. Questo è il tema principale di uno dei miei libri: Fuori dal tunnel. Le transizioni scuola lavoro in Italia e nel mondo, nel quale analizzo il caso italiano in dettaglio e lo confronto con altri Paesi. Qui faccio una sintesi estrema.

Tutti i Paesi con un sistema sequenziale di istruzione hanno simili problemi di costruzione dell’esperienza lavorativa dei giovani. Negli anni Ottanta, l’Ocse ha suggerito che questo fosse dovuto alla eccessiva rigidità del nostro mercato del lavoro. In Italia, fino ai primi anni Novanta, solo 13 giovani su 100 disoccupati trovavano lavoro e ci volevano così 6 anni circa perché tutti transitassero verso un’occupazione. Inoltre, l’intermediazione del lavoro era limitata al collocamento pubblico, che era oberato di lavoro per lo più burocratico e non aveva che una capacità assai limitata di trovare lavoro.

La Legge Treu del 1997, allora, introdusse il lavoro interinale per accelerare l’entrata dei giovani e anche per far sviluppare le agenzie private. La Legge Maroni, ispirata liberamente al Libro bianco di Marco Biagi, espanse sia i tipi di contratto che gli spazi delle agenzie private per l’impiego. Ciò ha causato un certo aumento del job finding – la probabilità di trovare lavoro nel corso dell’anno – fino a circa il 30% dei disoccupati, nel contempo, però, è aumentato anche il job separation, la percentuale di chi perde il lavoro. La conseguenza è stata una forte precarietà del lavoro, con conseguente accumulazione di esperienze lavorative di carattere generale e non specifiche. Se passi da un lavoro a un altro, impari le competenze generali (interagire con la clientela, rispettare regole e gerarchie, lavorare in team), ma poco delle esperienze lavorative specifiche a un certo posto di lavoro. In particolare, chi ha un livello di istruzione medio alto non riesce ad apprendere come fare bene il lavoro per cui ha studiato (giurista, economista, medico etc).

Non parliamo delle agenzie per l’impiego. Nonostante le riforme, solo il 3,5% trova lavoro con le agenzie. Si riduce anche la percentuale delle assunzioni nel pubblico dal 30% circa degli anni Novanta al 7-8% di oggi. Un numero crescente non ha altra scelta che il solito network di parenti e amici per trovare lavoro e se la sua famiglia non ha contatti, peggio per lui.

Il Jobs Act ha cercato di introdurre i quasi mercato nel caso del collocamento, con l’assegnazione dei voucher con cui i giovani possono chiedere aiuto alle agenzie pubbliche e private, anche nonprofit. Ma solo pochi voucher sono stati finanziati. Inoltre, con la defiscalizzazione delle assunzioni dei giovani si è cercato di spingere le imprese ad assumere a tempo indeterminato, ciò che consente ai giovani di apprendere anche le competenze specifiche. Però, appena finiti gli incentivi sono finite anche le assunzioni a tempo indeterminato.

L’alternanza scuola lavoro non ha funzionato perfettamente, ma ha lo scopo apprezzabile di introdurre elementi di dualità nel sistema di istruzione secondario superiore. La strada è giusta, poiché piuttosto che agire sul mercato del lavoro con la flessibilità sarebbe bene agire sul sistema di istruzione favorendo esperienze on the job. Anche le politiche per l’impiego che si stanno realizzando con Garanzia giovani o altri programmi funzionano quando prevedono tirocini in azienda di una certa durata, come dimostrano diversi studi recenti. Spesso sono un trampolino di lancio verso l’occupazione soprattutto per alcune categorie di giovani. La via maestra sarebbe espandere l’apprendistato scolastico per chi tende ad abbandonare o vuole lavorare più che studiare. I tirocini servono anche all’università.

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