L’astensione è sempre considerata un problema della democrazia. Ma spesso ha le sue ragioni. Se davvero i quattro partiti principali che da quasi due mesi negoziano su chi deve andare al governo ci costringeranno a tornare al voto, non potranno poi lamentarsi se in pochi faranno lo sforzo di andare di nuovo al seggio dopo lo spettacolo indecoroso di queste settimane.

Il 4 marzo ha votato il 73 per cento degli aventi diritto, l’affluenza più bassa della storia repubblicana. Nel 2017 al secondo turno delle elezioni amministrative si è registrato soltanto il 46 per cento. Ci sarebbe poco da stupirsi a osservare un risultato analogo per le elezioni-bis di inizio estate o d’autunno.

L’elettore avrà tutte le ragioni per stare a casa in questo spareggio dopo le “primarie della nazione”, come Mario Monti aveva definito le elezioni del 4 marzo, intuendo che avrebbero prodotto poco di definitivo.

Alcune premesse della competizione democratica, quelle che spingono all’esercizio del diritto di voto, sono infatti saltate. Di solito i partiti gareggiano per governare. In un sistema proporzionale cercano di ottenere la fetta maggiore di consenso per aggiudicarsi una fetta altrettanto grande di poltrone e potere.

A parte Forza Italia, nessuno dei partiti principali segue questo schema: sono più interessati a proteggere l’entità del proprio consenso che a trasformarlo in azioni di governo. Il Pd ha deciso che deve stare all’opposizione perché così hanno deciso i suoi elettori (anche se quel 18,7 per cento che ha votato Pd non tifava certo per questo esito, ma col voto ha dato un segnale di approvazione, sono gli altri elettori che, cambiando preferenze, hanno espresso la loro critica). I Cinquestelle preferiscono tornare alle urne piuttosto che trattare col nemico di sempre, Silvio Berlusconi, anche se così facendo rinunciano alla possibilità di applicare alcune delle loro proposte.

La Lega ha trattato a nome del centrodestra soltanto con i Cinquestelle, ma non col Pd, perché Matteo Salvini teme di rimanere stritolato da un’intesa tra Berlusconi e Matteo Renzi più che di rimanere all’opposizione. Un pericolo che Salvini avverte tuttora, se si dovesse andare verso un “governo istituzionale” guidato magari dal leghista Giancarlo Giorgetti e sostenuto da Forza Italia, Pd e di malavoglia alla stessa Lega, con i Cinquestelle a riempire le piazze contro l’ennesimo accordo “di palazzo”.

Tutti i leader, Luigi Di Maio incluso, hanno scambiato il mezzo (avere consenso ed essere alti nei sondaggi) con il fine (governare per fare le cose promesse o anche soltanto per mandare avanti il Paese).

L’altra premessa della democrazia che è saltata riguarda le alleanze. In un sistema proporzionale multipolare, per costruire una maggioranza servono accordi sulle poltrone e sui programmi. Nessun partito – neanche i Cinquestelle – è stato serio su questo. Nessuna proposta formale. Nessun voto tra gli iscritti sul mandato a trattare e sul possibile compromesso da sottoporre ai partner. Non c’è alcun metodo. I Cinquestelle, che sono stati i protagonisti di questa fase, hanno elaborato un assurdo programma di governo “minimo” che indicava su cosa il Movimento era d’accordo sia con il Pd che con la Lega senza invece fare una proposta esplicita a Salvini sui temi cari ai leghisti (pensioni, immigrazione, Europa) o al Pd su lavoro, sociale, conti pubblici e imprese.

E ora, cari leader, come pensate di fare l’eventuale campagna elettorale bis? Ricominciando con gli insulti, le scaramucce e le promesse miliardarie senza coperture come da inizio anno? Annunciando alleanze pre-elettorali? Cambiando qualche faccia o etichetta?

Nessuno si salverà in questo disastro. La Lega ha scoperto di non potersi separare da Berlusconi e Forza Italia e l’indispensabile Berlusconi potrebbe ora recuperare un po’ di voti persi a favore di Salvini che si è messo in attesa (aspetta e spera) per diventare lui il capo unico delle destre. Chi ha votato i Cinquestelle sperando nel cambiamento ha scoperto che la buona volontà non basta e che la strategia di Di Maio, ad oggi, ha fallito. I pochi che ancora votano Pd scoprono di appoggiare un partito in cui un iscritto senza incarichi formali – Matteo Renzi – può decidere dalle poltrone di un talk show come usare i loro voti, troppo impegnato ad assecondare i propri capricci per occuparsi della reputazione di becchino della sinistra italiana che la cronaca gli sta regalando.

Il presidente della Repubblica Sergio Mattarella ha costretto i partiti a prendersi le loro responsabilità, non ha offerto soluzioni costruite al Quirinale. E i partiti non stanno trovando alcun accordo. Ma non saranno gli elettori a toglierli dal pantano.

Anche dopo nuove elezioni – con una legge elettorale proporzionale – serviranno accordi su poltrone e programmi. Chi pensa di poter rinviare il problema a un domani sempre lontano, così da non pagare il prezzo politico che ogni scelta netta comporta, rischia di essere annichilito da elettori estenuati e sempre meno tolleranti.

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