“A volte è strano sopravvivere”. La mano tiene una tazzina di caffè. Lo sguardo è altrove. Lui invece è di fronte a me. A breve narrerà della sua esperienza, riportata nel libro Hevalen. Perché sono andato a combattere l’Isis in Siria (edizioni Alegre), davanti agli studenti del liceo classico di Ferrara.

Per Davide Grasso per sette lunghi mesi è stato strano sopravvivere. Oggi ne parla con parole asettiche. Alcune cose le può dire. Come il suo nome di battaglia, Tiresh Gabar. Altre no. Non mi sento nemmeno in diritto di chiedere. Soffro una condizione di soggezione. Vorrei avere il coraggio che lui ha dimostrato. Non si tratta di invidia. Manca l’elemento soggettivo di qualsiasi volontà di protagonismo.

È piuttosto un esame di realtà. E la mia realtà contempla come armi in questo momento una penna e una carta. La sua lo vedeva imbracciare un Kalashnikov e mettersi in cintura un paio di granate per difendere la libertà di altre persone.

Davide ha 37 anni. È giornalista. Anche io sono giornalista. Sorrido se penso che mi è capitato di sentirmi definire giornalista coraggioso. Suona buffo. Penso alla voragine che separa coraggio e militanza. Forse la stessa che separa l’interesse per la vita propria dall’interesse per la vita degli altri. Gli altri di Davide sono i civili che vivono nella Siria del nord.

“Nel 2016 sono andato in quei luoghi come giornalista indipendente. Ero inviato per Radio Onda d’urto e per il sito Infoaut.org. Dopo due mesi mi sono arruolato nelle Unità di Protezione del Popolo (Ypg)”. Per entrare nell’esercito curdo che combatte contro l’Isis “è bastato chiedere ai tanti che incontravo a Qamishlo, nella Siria del nord. Uno di questi ha fatto da intermediario. Mi ha dato appuntamento al giorno successivo: fatti trovare pronto domani mattina, ti vengo a prendere e ti porto all’accademia dell’Ypg. Qui mi ha accolto un militare, ha trovato una uniforme della mia taglia”.

Davide non ha nemmeno fatto il servizio militare. “Ero stato riformato. Prima di allora non avevo mai toccato un’arma”. Laggiù riceve un addestramento rudimentale di poche settimane. Combatterà nelle fila dell’Ypg nel Rojava (“ovest’ in curdo) con i suoi nuovi compagni (“hevalen”) per cinque mesi.

“È una esperienza che consiglio di fare, quella di vedere di persona quei luoghi. Io ho avuto una crescita enorme. Sarebbe bello se per ogni cittadino ci fosse un servizio civile obbligatorio di tre mesi in Siria. La coscienza collettiva ne gioverebbe. Tra noi e loro esiste un divario inaccettabile in un pianeta. Un pianeta in cui una parte di esseri umani vive e muore in quelle condizioni è insostenibile. È inimmaginabile quello che avviene laggiù. Questo provoca una forma di ignoranza tanto profonda che si riverbera sul dibattito politico”.

Un esempio. “Parli di immigrazione e ti rendi conto che ci sono percezioni diverse sui veri pericoli, i veri problemi. Tutto diventerebbe diverso, molti si trasformerebbero”.

C’è stata una scintilla che ha spinto Davide a diventare un foreign fighter. “Dopo la strage del Bataclan ho percepito un attacco alla mia generazione, a una gioventù cosmopolita. Quella in atto in Siria è una rivoluzione culturale, un grande esperimento di confederalismo democratico, con idee politiche giuste e una resistenza contro un nemico che è nemico di tutta l’umanità. L’unico modo di rispondere era farlo in prima persona. Ci sentiamo degli eroi se facciamo dei reportage, se postiamo la foto di un profugo. Per carità, sono anche quelle azioni importanti e utili. Ma indossare una divisa prendere delle armi e andare al fronte è molto diverso. Perché chi combatte rischia molto di più”.

Tanto da rischiare di perdere tutto. “Nel libro spiego quanto proibitiva sia stata quell’esperienza a livello psicologico. Nell’arco di 24 ore ho rischiato di morire tre volte. Ci tengo al fatto che gli italiani comprendano che questa è la vita che fanno milioni di persone in Siria, Turchia, Palestina. Sono drammi causati in parte dai nostri governi. Solo così si può intuire quale pensiero collettivo si possa sviluppare in quei paesi nei confronti del mondo occidentale”.

Perché sei tornato? “Già quando sono partito non ero sicuro di avere il coraggio. In mezzo c’è anche il conflitto tra responsabilità politica e affetti privati. La mia famiglia ha faticato ad accettare la scelta. Ai miei genitori ho detto che sarei tornato dopo sei mesi, che è il tempo minimo per il reclutamento. E di nuovo in Italia non stavo bene, non era facile continuare. Sopravvivere a volte è una cosa inspiegabile. Ho visto tante di quelle scene…”.

E Davide prosegue con descrizioni che sembrano uscite da Quattro giorni a Chatila di Jean Genet. “A nord di Aleppo stavamo evacuando dei civili; un miliziano infiltratosi con abiti civili si è fatto esplodere all’interno di un convoglio, facendo una strage con gran parte delle vittime bambini. Questo a trecento metri da me”.

La tazzina è vuota. Lo sguardo è sempre altrove. “L’Isis aveva disseminato mine intorno a tutta le città. Noi non avevamo strumenti per individuarle. Allora il comandante della nostra colonna è andato avanti e si è fatto saltare per permettere agli altri di procedere. Il mio comandante, aveva 20 anni, è morto così, davanti a noi. Un altro mio amico ha perso entrambe le gambe e gli occhi”. E dopo ogni strage “si cerca di avere rispetto dei cadaveri, ma ogni cosa viene cancellata. I miliziani fondamentalisti si fanno i video selfie mentre asportano i seni dai corpi martoriati delle donne curde. Ai prigionieri vengono asportati gli arti con delle seghe. Non dico che gli europei dovrebbero vivere quelle condizioni, per carità, ma almeno essere consapevoli che qualcuno, anche per colpa loro, vive così. Loro lo sanno. Sono esterrefatti dalla nostra assenza di empatia, dalla nostra mancanza di onore. Anche l’ultimo contadino in mezzo al deserto sa che il suo popolo è stato spossessato della sua vita e del suo futuro anche grazie a noi. Molte delle armi che si usano contro la popolazione curda sono di fabbricazione europea e vengono fornite da governi alleati dell’Italia o dalla Turchia con i soldi dell’Unione europea. Dobbiamo percepire che il nostro benessere esiste grazie alla loro sofferenza. Da qui non si fugge”.

Anni fa lessi una antologia di poesia curda. Una delle più antiche, scritte da Baba Tahir, parlava di un’aquila. L’aquila volava sopra il cielo, “miniera del vento”, del Rojava e immaginava di parlare agli elementi: “se alle montagne narrassi il mio soffrire/sui pendii non crescerebbero più i fiori”.

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