Non lascia quasi scampo alla discussione l’atto di intervento dell’Avvocatura generale dello Stato che, per conto del governo, si è costituita davanti alla Consulta chiamata a decidere se l’articolo 580 del codice penale (quello che punisce l’aiuto o l’istigazione al suicidio) rispetti o meno la Costituzione. Una legge, datata 1930, portata alla valutazione dei giudici dopo la sentenza sul caso di Dj Fabo per cui è finito a processo Marco Cappato. Nelle 18 pagine del documento – scaricabile sul sito eutanasialegale.it –  l’avvocato Gabriella Palmieri sostiene che la questione è “inammissibile, e comunque manifestante infondata”. Ritiene in pratica che i giudici di Milano “non abbiano presentato la questione correttamente e che l’affermazione di non essere in grado di definire il processo senza la risoluzione della questione sia “meramente strumentale alla proposizione” della questione stessa. “Il giudice rimettente – si legge nel documento – solleva la questione al solo scopo di ottenere l’avallo interpretativo scelto da parte della Corte Costituzionale”.

L’Avvocatura: “Giudici potevano decidere e dare attenuanti”
Per l’Avvocatura la corte d’Assise “avrebbe potuto definire il giudizio penale pendente” sulla base della propria istruttoria in cui aveva “già escluso che il comportamento di Cappato abbia determinato il rafforzamento dell’intenzione suicidiaria” di Fabiano Antoniani, diventato cieco e tetraplegico dopo un incidente stradale. Stremato dalle sofferenze il 40enne aveva deciso di morire e convinto la famiglia che non c’era nessuna altra via per lui. Tanto che la madre, un momento prima che lui schiacciasse con la bocca il bottone per attivare la procedura, ha raccontato di avergli detto: “Vai Fabiano, la mamma vuole che tu vada”. Per i giudici dell’Assise Cappato, infatti, non ha rafforzato una volontà che era già formata e ferma.

Le toghe milanesi avrebbero potuto, invece, – secondo l’Avvocatura – concedere a Cappato le attenuanti del caso senza sollevare nessuna eccezione: “Una volta acclarato che con il reato di aiuto al suicidio s’intende escludere qualsiasi intromissione di terzi anche nell’esecuzione della volontà di porre fine alla propria esistenza, il dato che l’agevolazione materiale sia stata prestata nel corso di un cosiddetto suicidio assistito (come tale tuttora non consentito) ben potrà essere apprezzato dal giudice di merito, ai fini della determinazione della pena da irrogare nell’ambito della cornice edittale e/o ai fini della concessione di circostanze attenuanti. È evidente, infatti – si legge ancora -, come forme di aiuto al suicidio del genere non possano essere valutate di pari gravità in confronto a altre che prescindano del tutto da qualsiasi causale legata alla condizione di salute e/o di vita in cui versa chi voglia porre fine alla propria esistenza”. Nel documento si ricorda l’unica sentenza della Cassazione del 1998 sull’agevolazione in cui gli ermellini scrivono che il suicidio “costituisce pur sempre una scelta moralmente non condivisibile”.

“Deve essere assicurata la possibilità di ritirare la volontà di suicidarsi”
Ma non solo. Secondo l’Avvocatura chiunque deve avere la possibilità di ripensarci: “Dev’essere senz’altro assicurata, sino all’ultimo istante di vita, la possibilità di ritirare la volontà di suicidarsi. In assenza di previsioni che puniscano l’aiuto al suicidio come tale, anche indipendentemente, cioè, da un’influenza dell’agente sia pure indiretta sulla volontà altrui già formata, sarebbe seriamente compromessa l’efficacia dell’eventuale ripensamento sul punto del titolare del bene protetto, cui pure, come si è visto, dev’essere senz’altro assicurata, invece, sino all’ultimo istante di vita, la possibilità di ritirare la volontà di suicidarsi”. E “in tale ottica, anche la fase dell’esecuzione del proposito suicidiario deve restare sotto l’esclusivo controllo del titolare del bene, per garantire appunto, che quest’ultimo possa sempre liberamente recedere da quell’intento”.

L’Avvocatura contesta anche il riconoscimento di “un diritto al suicidio” – sostenuto dalla procura di Milano e dai giudici del capoluogo lombardo – perché proprio la Costituzione “demanda al legislatore la scelta dei fatti da sottoporre a pena”. Inoltre anche se, in base all’articolo 32 della Costituzione (diritto alla salute, ndr), l’ordinamento “riconosce che l’individuo possa in alcuni casi legittimamente rinunciare alle cure non ne deriva necessariamente come corollario logico-giuridico che il suicidio sia lecito”. Anche quello assistito. Per questo conclude l’atto anche solo un “parziale arretramento delle soglie di punibilità” potrebbe provocare “un pericoloso horror vacui“.

Marco Cappato: “Reato di aiuto al suicidio da superare”
Ritengo che” il reato di aiuto al suicidio “sia da superare, riconoscendo la libertà e responsabilità di scegliere per sé stessi fino alla fine” dice Cappato commentando il documento. “Nell’atto – prosegue la nota diramata dall’Associazione Luca Coscioni di cui Cappato è esponente – si invita a dichiarare inammissibile e, in alternativa, a respingere la questione sollevata dalla Corte d’Assise, difendendo la costituzionalità del reato di aiuto al suicidio equiparato al reato di istigazione, e menzionando la possibilità di trattare casi come quello sollevato ricorrendo alla valutazione di eventuali circostanze attenuanti. Personalmente – ha concluso Cappato – ritengo invece che quel reato sia da superare, riconoscendo la libertà e responsabilità di scegliere per se stessi fino alla fine”.

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