di Emiliano Romeo

Thorwald Dethlefsen, psicoterapeuta, diceva che la ‘malattia della cultura’ può essere curata solo con altra cultura. Un po’ di cultura ci spinge a guardarci indietro con un senso di superiorità, molta cultura ci spinge a guardarci avanti, rendendoci consapevoli che l’ignoranza che resta sarà forse sempre maggiore della conoscenza accumulata, e questo ci porta a mettere in dubbio tutto ciò che diamo per assodato.

Il reddito di cittadinanza è una di quelle questioni in cui si misura la distanza tra un Paese che si guarda alle spalle e un Paese che si guarda avanti. Va premesso che chi scrive è molto scettico in merito: non credo che il reddito di cittadinanza, non come è stato promesso almeno, si riuscirà a realizzarlo, e non certo per una questione di una carenza di fondi.

Il problema che l’Italia si trascina dietro da almeno un trentennio è la soglia bassissima di Utopia, nel senso che molte cose, anche quelle che non appartengono al mondo delle fantasie ma alla categoria del miglioramento, in Italia sono così lontane dalla realtà da risultare utopiche. Figurarsi il reddito di cittadinanza. Ma veniamo al punto culturale.

Il primo punto per cui il reddito di cittadinanza viene criticato è il discorso secondo il quale è moralmente ed eticamente dannoso e lubrico ricevere denaro senza aver prima lavorato. Cosa che peraltro il reddito di cittadinanza nemmeno prevede, ma restiamo sul tema. Il discorso che il lavoro nobiliti l’uomo fa certamente parte di quel substrato culturale con cui siamo cresciuti, una di quelle affermazioni che ogni bambino, non appena viene educato, più che apprendere, per dirla con il grande filosofo Wittgenstein, semplicemente inghiotte.

Nessuno comincia la vita dallo stesso blocco di partenza. E non tutti conosceranno nella loro esistenza il sudore della fronte, o svolgeranno mansioni che sono minimamente impegnative. Davvero, ammesso ovviamente sia possibile da realizzare in terra, si vuole credere che sia moralmente sbagliato avere diritto a priori e non per merito a non morire di fame, ad avere un tetto? Che sia sbagliato mettere al di sopra e non al di sotto della fortuna alcuni diritti fondamentali? Anche qui solo la cultura può mediare e farci trovare un punto di mezzo tra il socialismo reale, il ‘non-non comunismo’ (Paolo Virno) e il capitalismo più liberale.

La seconda remora è, se consentite, ancora più miope, anche se sincera. Con il reddito di cittadinanza nessuno vorrà più lavorare. Tutta la storia umana, fatta di violenti appetiti, ci fa essere inequivocabilmente sicuri di quanto sia momentanea la capacità di accontentarsi dell’uomo. E state certi che sarà molto più produttivo un uomo che entra nel mondo del lavoro aizzato dalla voglia, e non trascinato per i capelli dal bisogno. Io, per esempio, non mi accontenterei.

Ma veniamo al terzo punto. Davvero mettere al sicuro l’economia dagli sbalzi del mercato, dal lavoro sempre più precario che rende i consumi un’altalena impazzita, è qualcosa di sbagliato per questa povera Italia? L’automazione sta sostituendo sempre più il lavoro. Sta a noi rendere questo una fortuna e non un problema. Una volta che tutti i lavori di esecuzione saranno scomparsi, cosa faremo? Ci reinventeremo tutti creativi? Non credo sarà possibile. Anche perché non ci sarà nessuno con un salario adeguato a pagare la nostra creatività. È per questo che l’intellettuale Noam Chomsky, già negli anni ‘80, ha detto che presto l’idea che vivere richieda vendere in affitto il proprio tempo sarà considerata un’idea impensabile come lo è oggi il pensiero della schiavitù, almeno nel mondo cosiddetto libero.

È forse questo l’ultimo momento in cui rimangono risorse per investire, prima di essere presi in contropiede dalla storia, che come è noto ha il potere di girare i cardini delle porte al contrario. La priorità è investire nel reddito e nella cultura, per non inghiottire più troppe affermazioni senza pensarci, e troppe politiche che non ci meritiamo.

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