Forse non ci porteranno all’inferno. Ma certamente da almeno vent’anni tengono il Paese in un limbo di bassa crescita e competitività calante. Per questo Carlo Cottarelli li considera “i sette peccati capitali dell’economia italiana”, che è anche il titolo del suo nuovo libro (editore Feltrinelli). Sono l’evasione fiscale, la corruzione, l’eccesso di burocrazia, la lentezza della giustizia, il crollo demografico, il divario tra Nord e Sud e la difficoltà a convivere con l’euro. Insieme spiegano perché il reddito pro capite di un tedesco, che nel 1999 era solo del 5% più alto di quello di un italiano, oggi è del 25% più alto.

L’ex direttore esecutivo del Fondo monetario internazionale descrive ogni “peccato” con la forza dei numeri, che ben conosce anche grazie al periodo trascorso a Roma della veste di commissario alla revisione della spesa. Ma soprattutto ne analizza gli effetti deleteri sui conti pubblici e, di conseguenza, sulla qualità della vita dei cittadini. Che devono e possono reagire, auspica Cottarelli nel saggio uscito a poche settimane dalle elezioni politiche, dando il loro sostegno alle riforme necessarie per uscire dal limbo. Non c’è molto tempo prima che arrivi un altro choc, perché le due grandi vulnerabilità che ci hanno esposti agli attacchi speculativi del 2011-2012 – scarsa competitività e alto debito – sono sempre lì. E “non si può sperare che il mare resti sempre tranquillo”.

A nostro favore gioca il fatto che i problemi sono strettamente correlati: accelerare la giustizia renderebbe più facile combattere l’evasione; evadendo meno ci sarebbero più risorse per l’assistenza all’infanzia, cosa che incoraggerebbe a fare più figli. I circoli viziosi, insomma, possono essere invertiti rendendoli virtuosi. Così per ogni magagna l’economista che oggi dirige l’Osservatorio sui conti pubblici dell’università Cattolica suggerisce possibili soluzioni. E sgombra il campo dalle illusioni: no, la crescita non può essere trainata dal settore pubblico. Né dagli investimenti infrastrutturali europei. La spesa privata poi non può essere sostenuta dal credito bancario, visto che le banche sono ancora zeppe di sofferenze. Infine, l’uscita dall’euro non sarebbe affatto la panacea dei nostri mali: ci aiuterebbe a recuperare competitività solo “se accompagnata da un taglio dei salari reali“e l’automatica svalutazione della “nuova lira” rischierebbe di “mandare in bancarotta parecchie famiglie o imprese”. Tutto sommato, “sarebbe come andare a giocare in serie B perché non si riesce a vincere in A”.

Non è un caso se il libro si apre e si chiude con una citazione di Pietro Gobetti: “Come non bastano le antiche glorie a darci la grandezza presente, così non bastano i presenti difetti a toglierci la grandezza futura, se sappiamo volere, se vogliamo sinceramente rinnovarci”. Parole scritte esattamente un secolo fa, sei anni prima che l’autore de La rivoluzione liberale fosse selvaggiamente picchiato da una squadra fascista. “Quella volta gli italiani imboccarono la strada sbagliata. Non dovrà essere così questa volta”, avverte Cottarelli. Che dietro il nostro “peccare” individua un unico filo conduttore: lo scarso capitale sociale, cioè quell’insieme di regole, valori condivisi e fiducia reciproca che sono l’humus dello sviluppo di una società. L’ex commissario alla spending review lo definisce “capacità di incorporare nelle proprie decisioni le conseguenze che le proprie azioni hanno sugli altri”.

Leopardi e Manzoni li chiamavano “anticorpi civili“, notando come quelli degli italiani siano storicamente deboli. Di qui la “giustificazione morale” della corruzione, troppo spesso giudicata con indulgenza come condizione di sopravvivenza di un’attività. Poco importa se il costo per il sistema economico nel suo insieme è elevatissimo, ben al di là dell’importo delle tangenti: da un lato c’è l’eccesso di spesa per le opere pubbliche – basti dire che dopo Tangentopoli il costo per la costruzione della metropolitana di Milano “è passato da 300-350 miliardi di lire per chilometro a 97″ – e dall’altro “un’economia corrotta funziona male, produce meno e cresce meno”. Idem per l’evasione fiscale: “Se io evado le tasse ci guadagno, ma se tutti seguono il mio esempio e tutti evadono, allora stiamo male tutti perché non ci sono più soldi per pagare i servizi pubblici”. E poco importa se ridurre l’evasione almeno alla media europea permetterebbe di recuperare circa 55 miliardi da usare per ridurre il deficit o tagliare dell’8% le tasse, nota Cottarelli. In questo caso però le colpe sono anche altrove: dalle debolezze strutturali nella gestione dei controlli sui contribuenti” alle “scarse penalità o addirittura vantaggi che si hanno evadendo”, per non dire del ruolo dei condoni nell’incentivare i furbi.

Non mancano, accanto a diagnosi e proposte, le critiche alle misure decise in molti dei settori oggetto del nostro peccare dal governo Renzi: vedi la voluntary disclosure, (“non si è poi molto discostata dai condoni. Un po’ di soldi sono entrati ma è stato come raschiare il fondo del barile“), l’eccessiva burocratizzazione dell’anticorruzione (le competenze di Anac e funzione pubblica della presidenza del Consiglio si sovrappongono), i bonus per le famiglie con figli che “se l’obiettivo era aumentare il tasso di natalità sono stati soldi buttati via“, le stabilizzazioni di insegnanti con la Buona Scuola (“non mi sembra che fosse una priorità”). Quanto ai costi della burocrazia, l’ex commissario ricorda ancora una volta il muro di gomma che si trovò davanti quando tentò di tagliare i privilegi degli alti papaveri: “Avevo proposto che nessuna organizzazione pubblica con meno di 50 dipendenti avesse un’auto blu. Nella versione del decreto approvata, invece, si consentiva almeno un’auto blu a tutte le organizzazioni (…) Non sono mai riuscito a capire chi abbia apportato quella modifica. Quando l’ho chiesto mi è stato detto che anche la versione originale del decreto prevedeva un’auto blu per tutti. Per fortuna conservo l’originale tra le mie carte”. Meglio stendere un velo pietoso, poi, sull’esito dei tentativo di tagliare gli stipendi dei dirigenti pubblici: “L’unico provvedimento adottato è stato un tetto di 240mila euro, che però ha comportato un taglio dello stipendio soltanto a una trentina di persone“. Compreso “il commissario stesso”.

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