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“Be careful, please”, Stai attenta, ti prego, mi dice un’amica da Gaza. “It’s dangerous”, E’ pericoloso. “Be careful. You’ll get in trouble”, Finirai nei guai, mi dice un amico dall’Iraq. “We are worried for you”, mi dice un altro amico ancora dalla Siria.

Siamo in ansia per te.

Sono frasi che mi dicono spesso. Ma non quando sto per andare al fronte: quando sto per parlare in pubblico. Quando mi invitano a un convegno. A un festival. In TV.

Quando sono in Europa, non quando sono in guerra.

Perché quando parlo, a volte parlo dell’Islam. E a volte per parlarne bene.

L’Islam inteso più come cultura che come religione, onestamente. Ma mi capita di raccontare le mille cose belle che ho imparato in questi miei dieci anni tra i musulmani: cose minime, per esempio l’abitudine di spezzare il pane, invece che tagliarlo con il coltello, perché il pane si onora e si rispetta: o offrire un bicchiere d’acqua a chi viene a trovarti, l’acqua prima di tutto il resto, perché l’acqua è rara e preziosa, ho imparato a non considerare scontato non avere fame né sete, e a non domandare mai “Come stai?” in modo retorico, così, distrattamente, come quando da noi incontri uno per strada, ma solo se poi ho voglia e tempo per ascoltare: perché è una domanda importante – o anche cose un po’ più impegnative, tipo liberarmi del nostro do ut des, della nostra idea dello sdebitarsi, perché bisogna dare anche senza ricevere, amare anche in perdita, avrebbe detto don Tonino Bello, dare senza che venga chiesto, e anzi, prima che venga chiesto, perché chiedere può essere difficile: può essere umiliante: e bisogna poi anche ricevere senza dare, che non sembra, ma è altrettanto difficile, perché ricevere, ricevere e basta, senza nulla in cambio, ci ricorda che siamo vulnerabili, che non siamo autosufficienti, mai: che non siamo un’isola, come avrebbe detto anche Abraham Joshua Heschel. Che invece era un rabbino.

Ma insomma, cose così. Cose assolutamente innocue.

E mi è capitato di raccontarle anche qui. In questa piccola città fiamminga in cui in questi giorni si parla di migranti in uno di quei tipici festival che pensi che se il mondo fosse tutto così, sarebbe un mondo migliore – perché hanno tutti quest’aria semplice e bella, a Gent, sono tutti curiosi, e sensibili, e interessati agli altri, ognuno, nel suo piccolo, impegnato in mille attività, ognuno che un po’, come Gandhi, no?, prova a essere il cambiamento che vorrebbe vedere, e persino il caffè ti viene servito da un barista down che qui non è down, è il barista e basta. E mi guardo intorno, allora, e mi chiedo: Attenta? E perché?

Di che, di chi dovrei avere paura?

E però sono cose che mi dicono sempre. E che mi dicono tutti. Tutti, ma proprio tutti i musulmani che conosco. Ovunque vivano. Hanno tutti paura di mostrarsi musulmani.

Paura di essere se stessi.

E mi colpisce, ogni volta. Mi turba. Perché non hanno paura solo degli islamofobi: hanno paura di tutti noi. Senza distinzioni. E mi turba perché è una paura che non so capire. E quindi mi guardo intorno, in questa Gent così aperta, così plurale, questa Gent in cui mi sento così a casa, e mi chiedo: cosa c’è, qui, che non so vedere? In quello che ci diciamo in questi giorni, noi europei eredi dell’Illuminismo, paladini della libertà di pensiero e espressione: cosa c’è, che non so sentire? Perché che sia reale o meno, questo è quello che i musulmani percepiscono: che se parli di Islam, se ti mostri musulmano, vieni emarginato, isolato. Condannato.

O comunque giudicato.

Se parli di Islam, finisci nei guai.

Penso a Stanley Greene, il fotografo americano per cui ho avuto la fortuna di scrivere. Penso a quando giravamo insieme. E subito, catalizzava l’attenzione di tutti gli altri giornalisti, perché aveva quest’aria da rockstar, con tutti gli anelli, gli orecchini, la bandana. Il giubbotto di pelle. E nessuno notava mai l’unica cosa in cui era davvero diverso: era l’unico nero.

Nessuno notava mai che siamo tutti bianchi. Ancora.

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