Nelle ultime settimane “Tabarnia” è il termine più cercato nei motori di ricerca dei pc spagnoli. Un termine desueto “rispolverato” dall’associazione civica Barcelona is not Catalonia, una crasi, sorta di acronimo che racchiude Tarragona e Barcellona, province opulente e produttive che hanno riaffermato, con la consultazione regionale dello scorso 21 dicembre, di essere contrarie alla secessione.

Una striscia di terra affacciata sul Mediterraneo segna un’identità geografica e un comune obiettivo politico: evitare che gli ardori separatisti provenienti dalle zone rurali interne di Lerida e Gerona (città del president Carles Puigdemont, ancora in Belgio per sfuggire al mandato di cattura) travolgano, come un fiume in piena, anche i centri industriali e più progrediti. Sembra di rileggere i commenti post Brexit quando, dopo la sorpresa per la vittoria del leave, prese corpo la discussione su un fantasioso status speciale, utile a garantire a Londra la permanenza nell’Unione europea.

Le elezioni catalane confermano un trend generale, la frattura profonda tra le periferie rurali, avvezze a ribaltare lo status quo, a resettare assetti tacciati di creare emarginazione, e i grandi centri urbani, pronti a difendere conquiste socio-economiche e condizioni di privilegio.

I dati delle urne sono eloquenti: l’insieme delle forze separatiste ha raccolto oltre il 60% a Gerona, poco più del 40% a Barcellona, uno stacco di oltre 20 punti percentuali tra la provincia e la metropoli. Con un meccanismo elettorale che, a dire di molti analisti, tende a favorire le circoscrizioni periferiche, lo statuto di autonomia catalano prevede che il distretto di Barcellona maturi un seggio ogni 50mila abitanti, Lerida invece esprime un deputato ogni 21mila elettori. Così, il voto di un elettore delle città interne ha un peso maggiore (pari a circa 1,6) in termini di rappresentanza parlamentare rispetto al voto di un cittadino di Barcellona. Uno sbilanciamento che favorisce, da sempre, il blocco indipendentista il quale mantiene saldi i suoi bastioni elettorali nei piccoli centri.

L’associazione Barcelona is not Catalonia prova a competere con il movimento indipendentista usando le stesse armi della propaganda: valorizzazione del bilinguismo, ponendo però un freno alle sanzioni inflitte agli esercizi che non usano il catalano nelle insegne commerciali; redistribuzione fiscale che consenta a Barcellona di recuperare risorse, il 32% di quanto versato dalla capitale alla Generalitat – il governo regionale – viene riassorbito da spese nelle altre province.

Ancora, a medio termine si propone di fondare l’Associazione dei municipi per l’autonomia di Tabarnia e di sfidare i separatisti sul terreno referendario, con raccolta firme per la consultazione sull’autonomia, con tutte le garanzie legali.

Insomma, in Catalogna è di moda il gioco dell’exit, con una parte consistente di territorio che sogna il definitivo distacco dalla Spagna e altra parte che costruisce strade alternative per sfuggire al progetto secessionista, con l’improbabile continuità di un significativo lembo di terra sotto il vessillo di Madrid.

Immagine in evidenza tratta dalla pagina Facebook di Barcelona is not Catalonia

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