È una sentenza importante quella con cui la Corte Costituzionale – nel relativo silenzio dei giornali e degli organi di stampa – ha, sia pur con prudenza, aperto alla possibilità che sia considerata madre di un bambino nato da utero in affitto la donna che non lo ha partorito, ma cercato intenzionalmente e poi cresciuto. Chiariamo: i giudici non sono stati chiamati, in questo caso dalla Corte d’appello di Milano, a giudicare sulla liceità della pratica (che la legge 40 vieta), ma sulla costituzionalità o meno dell’articolo 263 del codice civile, nella parte in cui “non prevede che l’impugnazione del riconoscimento per difetto di veridicità possa essere accolta solo laddove sia ritenuta rispondente all’interesse del minore”.  In pratica, è stato chiesto alla Corte se fosse costituzionale una legge che non subordina il riconoscimento della verità biologica all’interesse del minore, com’è il caso, appunto, di un bambino nato da maternità surrogata, che ovviamente trae maggior vantaggio dall’essere cresciuto dalla famiglia che ha chiesto alla madre surrogata di portare avanti la gravidanza che da quest’ultima. La quale – oltre che spesso sconosciuta e di un altro paese – non ha evidentemente alcuna intenzione a crescere il bambino. Tutto questo al di là del tema delle condizioni di vita, spesso terribili, delle madri surrogate, tema che non entrava nel merito della sentenza.

Ma veniamo al caso specifico, che riguarda una donna italiana, malata di tumore e impossibilitata ad avere figli, andata in India con il marito e tornata con un figlio nato da surrogata. Alla richiesta di trascrizione, la coppia era stata segnalata alla Procura della Repubblica per sospetto di maternità surrogata, poi ammesso dai genitori. A quel punto si è aperto un iter giuridico burrascoso: il pm ha chiesto di togliere il bambino alla coppia e darlo in adozione, ma fortunatamente il Tribunale dei minorenni ha respinto facilmente la richiesta perché il padre era effettivamente padre biologico del bambino. Il Tribunale di Milano ha però stabilito che il bimbo non è figlio della donna che nel frattempo lo ha cresciuto, poiché in Italia la maternità è legata semplicemente e esclusivamente al fatto di aver partorito il bambino.

La donna a quel punto si è rivolta, tramite la Corte d’appello di Milano, alla Corte Costituzionale, in merito all’art. 263 del codice civile (come spiegato sopra). La Corte ha dichiarato non fondata la questione di legittimità costituzionale  della legge. Dunque i giudici non hanno accolto l’eccezione, ma al tempo stesso hanno di fatto sottolineato la necessità del “bilanciamento tra esigenze di accertamento della verità e interesse concreto del minore”. E hanno dichiarato costituzionalmente inammissibile che l’esigenza di verità della filiazione si imponga in modo automatico sull’interesse del minore. Il che non vuol equivale, secondo la Corte, a dire che questo interesse comporti automaticamente la cancellazione dell’esigenza del riconoscimento della verità biologica ma che è sempre necessario un bilanciamento tra le due istanze. Bilanciamento che certo tenga conto “dell’elevato disvalore che il nostro ordinamento riconnette alla surrogazione di maternità”, ma al tempo stessa rifletta anche sulla presenza di quegli strumenti legali che “consentano la costituzione di un legame giuridico col genitore contestato“, come l’adozione in casi particolari.

Per la prima volta, insomma, la Corte accoglie in parte il perno dell’argomentazione della Corte d’appello: argomentazione che consiglio di leggere non solo per la sua straordinaria modernità e intelligenza, ma anche per la ricchezza di riferimenti giurisprudenziali di casi nei quali si è evitata la tragedia di bambini che secondo la legge, pur avendo una famiglia concreta pronta ad accoglierli, avrebbero dovuto essere tolti con violenza e adottati perché nati tramite surrogata. Il tema centrale è quello dell’interesse del minore, ovvero quello dei diritti del bambino nato da surrogata, che va sempre confrontato con “l’interesse alla verità” (cioè con le modalità del concepimento).

Cerchiamo di tradurre il tutto in termini più semplici. I giudici costituzionali non potevano annullare una legge perché non prevedeva una subordinazione automatica dei diritti del bambino all’accertamento della verità genetica. Questa sarebbe stata una scelta rivoluzionaria, ma probabilmente ancora non matura per i tempi attuali. Tuttavia, in buona sostanza viene accolto il ragionamento della Corte d’appello, secondo cui è necessaria una rinnovata riflessione tra favor veritas e favor minori, insieme al riconoscimento della sempre maggiore centralità, viste anche le nuove tecniche di fecondazione e gestazione, della genitorialità sociale, come già dimostra d’altronde, ad esempio, la pratica dell’adozione.

Tanti gli interrogativi che restano aperti: è ancora giustificabile che il nostro ordinamento decida che la madre sia unicamente lei che partorisce (persino nel caso, ipotizziamo, che l’ovocita non sia suo)? E siamo sicuri che la gestazione per conto di altri sia sempre da condannare? E soprattutto, cosa si fa se, pur essendo la surrogata una pratica condannata nel nostra paese, ci troviamo di fronte a cittadini italiani nati da tale pratica? In altre parole, è davvero possibile rifiutare la trascrizione di un atto di nascita che in tutta evidenza risponde al best interest del minore?

Ho scritto più volte contro l’utero in affitto. Pur comprendendo le argomentazioni di buona parte delle femministe, oggi il mio giudizio è parzialmente cambiato, anche in base all’evidenza che si tratta di una pratica che, volenti o nolenti, sarà sempre più diffusa, e con essa la distinzione tra genitori biologici o di sangue e genitori affettivi. Distinzione da cui nascono enormi questioni – e conflitti, come dimostra il recente scontro interno al mondo omosessuale sul tema – a cui tuttavia è necessario tuttavia dare una risposta.   Oggi i tribunali, a cui la Corte ha demandato la valutazione,  hanno ancora pochi strumenti da utilizzare quando si trovano di fronte a bambini nati da surrogata e tuttavia in braccio a genitori che già hanno cominciato ad amarli pur non essendo genitori biologici (per fortuna, va ricordato, il caso di un bambino totalmente estraneo, dal punto di vista genetico, alla coppia, è raro, visto che i paesi che permettono l’utero in affitto quasi sempre richiedono che ci siano i geni di almeno un genitore, sperma o ovocita, proprio per aggirare le difficoltà legali).

Partire dall’interesse del bambino è un buon modo per trovare una strada, e la Corte Costituzionale lo ha riconosciuto. Perché davvero, mi chiedo chi possa avere il coraggio di chiedere l’adozione di un figlio nato tecnicamente da una donna straniera, ma di fatto dal desiderio e dall’amore di un padre e di una madre, costretta a questa scelta non per capriccio ma per un tumore che le ha impedito di essere madre biologica. A me pare aberrante, questo sì.

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