“Io avevo ancora quell’età in cui non siamo noi a formare le amicizie, quanto le amicizie a formare noi: un’età in cui non c’è differenza tra avere buoni amiciessere un buon amico. Dopo che frequenti un gruppo di persone per tre anni, la tua identità si vincola alle loro aspettative, resti intrappolato in un passato comune; la gamma delle tue reazioni diventa sempre più limitata. Da un dato momento in poi c’è spazio solo per impercettibili cambiamenti. Il passato soffoca e costringe, e l’unica via per tornare a respirare e a muoversi sono nuove occasioni, gente nuova. Con Freddie era diverso. Il mio affetto per lui non mi condizionava. Sono gli amici a fare di una persona uno spettatore o un protagonista”.

Chi parla è il protagonista senza nome, l’io presente del bellissimo, dissacrante, fresco romanzo d’esordio di Geoff Dyer, Il colore della memoria (traduzione di Giovanna Granato; Il Saggiatore). È un libro che si allontana di pochi centimetri (che fanno la differenza) dalla vita vissuta dall’autore e dai suoi amici nella Brixton dei tardi anni Ottanta, quando South London era ancora sconquassata dalle rivolte razziali, dall’ordine thatcheriano e dalla musica vissuta come sinfonia del quotidiano. Brixton, allora, non era ancora terra di conquista per i radical-chic e neppure boccone appetitoso dei fanatici della gentrificazione. Era ancora un ghetto, dove si respirava l’odio segregazionista e dove il pericolo di essere aggrediti da qualche disperato faceva parte della vita di tutti i giorni.

I personaggi del romanzo sono in perenne attesa del sussidio di disoccupazione, vanno a feste scatenate, fumano erba, dipingono quadri astratti, scrivono, parlano di filosofia, letteratura, arte e jazz seduti su terrazze assolate. Guardano i colori filtrati dalla luce del sole, delle candele e dei falò, perché Il colore della memoria è prima di tutto un libro imbevuto di radiazioni elettromagnetiche, di giochi di ombre, di accecanti panorami urbani che diventano messaggio per affermare gli stati d’animo della vita di Freddie, Carlton, Steranko, Foomie, Monica e Fran.

Un romanzo della luce, un album di istantanee, risistemato da Geoff Dyer trent’anni dopo averlo scritto, importante nel descrivere un determinato periodo storico e una zona di Londra quanto Latte, solfato e Alby Starvation di Martin Millar e L’erba nera di Alex Wheatle. Il messaggio di questi testi è chiaro: nonostante tutto a South London si poteva essere felici. Ma Il colore della memoria può risultare attuale anche oggi, il disagio popolare e l’energia proletaria si trovano un po’ più a sud, basta andare a Streatham Hill per accorgersene.

Per chi quegli anni li ha vissuti a Londra la lettura risulterà essere un commovente tuffo al cuore. Forse a me il libro è piaciuto molto anche perché ho ritrovato esperienze fatte insieme ai miei amici alle spalle di Portobello road, in quella All Saints road (unica strada citata nel libro fuori dal perimetro di Brixton), quando ancora i dintorni di Notting Hill non erano invasi dai turisti, quando i taxi non entravano nella via per paura di aggressioni e l’intero quartiere era abitato da caraibici e i muri di casa vibravano con i bassi che uscivano da People Sound Records, al piano terra. C’erano le feste, come le racconta Dyer, c’era la multiculturalità, il sussidio, la luce, i colori, la pioggia e il bollitore sempre acceso.

Magari non tutti avranno avuto la possibilità di andare a feste scatenate a South London e di parlare di nulla e di jazz, ma tutti i potenziali lettori sono stati giovani e troveranno dinamiche di quell’età ben calibrate nel testo. Un libro volutamente incompiuto, senza una rottura definitiva (anche se il corsivo messo nell’epilogo è una trovata lirica geniale) scritto con l’intelligenza e la bravura di fermarsi prima dell’omologazione, quando ancora il battito è forte, pulsante, vivo. Un vero gioiellino, lo consiglio caldamente.

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