La nuova web tax all’italiana? “È a rischio di incostituzionalità e sarà quasi matematicamente oggetto di ricorsi alla Corte di giustizia europea. Credo non sia un caso se l’hanno fatta slittare al 2019: non potevano più fare marcia indietro, ma si sono resi conto delle criticità“. Per Dario Stevanato, professore ordinario di diritto tributario all’università di Trieste, la proposta del senatore Pd Massimo Mucchetti approvata domenica dalla commissione Bilancio del Senato è una mossa politica contro l’elusione fiscale dei grandi gruppi del web che fa però acqua dal punto di vista tecnico e giuridico. E nonostante l’intento sia farla pagare solo alle aziende straniere – cosa che aprirà la strada a contestazioni – nei fatti si rivelerà un boomerang per lo sviluppo digitale del Paese. Infatti le start up italiane attive nei servizi web, che spesso non producono utili per anni, difficilmente potranno godere del credito di imposta istituito per evitare la doppia tassazione ai danni delle imprese di casa nostra.

Dopo giorni di tira e molla su tempi e ambiti di applicazione e balletti di cifre sugli introiti attesi, l’ultima formulazione dell’emendamento alla manovra approvato dai parlamentari prevede che dal 2019 siano soggette a un’imposta del 6% sui ricavi da “transazioni digitali relative a prestazioni di servizi effettuate tramite mezzi elettronici” a favore di società con sede in Italia – escluse le imprese agricole, i soggetti che hanno aderito al regime forfetario o a quello di vantaggio – e di “stabili organizzazioni di soggetti non residenti situate nel medesimo territorio”. “Restano escluse le transazioni nei confronti dei consumatori finali, quindi per esempio l’abbonamento a Netflix non sarà tassato. Mentre lo saranno la vendita di spazi pubblicitari da parte di Google e Facebook“, chiarisce Stevanato. E gli acquisti su Amazon, che secondo le Fiamme Gialle tra 2009 e 2014 ha evaso 130 milioni di tasse in Italia? “La web tax scatta solo se l’acquirente è un’impresa e se compra qualcosa di immateriale, come degli ebook. Al contrario un’azienda che vende vestiti spedendoli dall’estero non pagherà nulla. Un meccanismo in chiaro contrasto con la richiesta dell’Ocse e dell’Ue di evitare regimi speciali applicabili solo alle società digitali”.

Per le aziende italiane credito di imposta. “E le start up?” – “E’ però previsto che sia un decreto ministeriale (del Tesoro, ndr) a individuare entro l’aprile 2018 le prestazioni soggette al nuovo balzello. Questo viola il principio costituzionale della riserva di legge in materia tributaria”. Non solo: “Nonostante la riformulazione dell’emendamento”, che puntava a evitare la contestazione dell’aiuto di Stato, “l’aliquota continuerà ad essere applicata solo quando a vendere il servizio è un soggetto estero, per cui è discriminatoria“. Per dribblare la contestazione, si è stabilito di far pagare tutti e istituire poi un credito di imposta “utilizzabile esclusivamente in compensazione“. In questo modo, spiega il docente, “per le aziende italiane la web tax diventa di fatto una ritenuta in acconto sull’Ires“. A patto che gli utili da tassare ci siano: chi è in perdita, come molte start up, “dello sgravio non potrà godere”. E finirà per pagare anche questo balzello. Tutti gli altri dovranno pazientemente aspettare il rimborso.

Gruppi stranieri discriminati. “Mi aspetto ricorsi alla Corte di giustizia Ue” – “Per le aziende estere che non producono redditi attraverso stabili organizzazioni nel nostro Paese, invece, la web tax sarà un’imposta sui ricavi a titolo definitivo, non recuperabile in italia né riconosciuta nel paese estero di residenza visto che non è un’imposta su reddito. E si applicherà a tutti, non solo a chi è localizzato nei paradisi fiscali. Di conseguenza è palesemente discriminatorio e mi aspetto ricorsi alla Corte di giustizia Ue (sia Google sia Facebook hanno sedi in Irlanda, ndr)”. Per non parlare delle possibili reazioni dei Paesi partner di fronte allo scatto in avanti di Roma mentre resta al palo il progetto comune per tassare i grandi gruppi di internet sottoscritto anche da Berlino, Parigi e Madrid. 

Le banche sostituto d’imposta. “Per le aziende nuovi oneri” – Un altro aspetto critico, continua Stevanato, “è che a fare da sostituto di imposta dovranno essere le banche, operando una ritenuta sui versamenti fatti come corrispettivo dei servizi assoggettati alla web tax. Ma come fa l’istituto a sapere per che cosa il suo cliente sta pagando? Immagino che dovranno essere le imprese italiane a sobbarcarsi l’onere di comunicare l’oggetto della transazione usando un particolare format per fare il bonifico”. Ricapitolando: rischio ricorsi, tasse aggiuntive per la start up e nuovi adempimenti a carico delle aziende italiane. Tutto questo per un gettito che la Relazione tecnica, basata sui dati Agcom sulla pubblicità online e sul valore del mercato digitale italiano stimato nel Rapporto Assinform, stima in soli 114 milioni di euro l’anno. Ben lontano dalle rosee previsioni sugli introiti potenziali della web tax “volontaria” introdotta dalla manovrina della scorsa primavera: 1 miliardo l’anno, secondo il presidente della commissione bilancio della Camera Francesco Boccia. Mucchetti, del resto, ha fatto sapere che  “una norma di questa importanza si fa perché serve, non per il gettito”.

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