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Telecom, Tim e l’elogio dell’italianità

Telecom, Tim e l’elogio dell’italianità
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Come non essere d’accordo con l’editoriale del Fatto economico di oggi di Stefano Feltri significativamente inserito nella rubrica Capitani di sventura?

La situazione di Telecom (oggi Tim) è davvero paradossale: sembra che l’obiettivo sia la totale destabilizzazione dell’azienda che, ricordo, dà lavoro a 50mila persone: tante famiglie da popolare una città di medie dimensioni. Curioso, poi, che si parli dell’“italianità” di Telecom nei termini in cui se ne parla e se ne scrive. Per carità, quel termine nessuno più lo usa, memori di quanta sfortuna l’orribile neologismo abbia portato anni fa a un governatore della Banca d’Italia, primo e unico a dimettersi nella storia dell’Istituto. Ma quando si dice che “la rete Telecom è un asset strategico” – espressione vagamente insignificante – si sottintende che deve essere, direttamente o quanto meno indirettamente, controllata dallo Stato (italiano).

Non si vuole Telecom in mani straniere, ma nei fatti, da 20 anni in qua, i disastri maggiori in Telecom e nelle telecomunicazioni nostrane li hanno fatti proprio gli italiani. La politica e il governo ai tempi di Prodi, Ciampi e Draghi, personaggi illustrissimi, hanno privatizzato Telecom Italia ricorrendo a un modello irrazionale e l’hanno affidata a Fiat, che di telecomunicazioni neppure voleva sentire parlare (non per nulla si era da poco liberata di un gioiello di industria chiamato Telettra). A questo punto della storia, entrano in gioco i raider della finanza, i ridicolmente definiti Capitani coraggiosi (senza soldi propri), sempre italiani. Infine – si fa per dire – ancora altri raider, questa volta del salotto buono dell’industria (Pirelli). Tutti italianissimi, hanno coscienziosamente demolito un’azienda, Telecom Italia, che era stata un campione mondiale negli anni 90 del secolo scorso (non si può dire lo stesso di altre aziende Iri).

Di ingenuità in ingenuità, di saccheggio in saccheggio, dopo una decina d’anni dalla privatizzazione, il colosso è ormai fiaccato e inzeppato di debiti. Ma non basta, dopo che i privati (italiani) hanno cosparso il sale sulle macerie fumanti della cittadella conquistata, rientra in gioco la politica (ovviamente, italiana). Con straordinaria continuità, proprio chi aveva avviato il disastro, la sventura, ritorna in campo: è sotto il governo Prodi che, questa volta a corto di salvatori autoctoni assistiamo all’arrivo degli spagnoli per arginare americani e messicani mentre il governo forza gentilmente qualche recalcitrante banca italiana a intervenire per salvare il simulacro dell’irrinunciabile “italianità”.

Il resto è cronaca recente e non si può dire che i governi, sia di centrodestra (Berlusconi IV) che di centrosinistra (Renzi), abbiano fatto meglio di quelli antichi. Fino al garbuglio inestricabile a cui siamo giunti con due aziende che cablano le medesime strade, non sappiamo con quale logica, ma di certo l’agognata italianità è salva, ça va sans dire!

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