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La vita in fumo

La vita in fumo
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Ho visto un paio di giovanotti arrancare sulle scale. Trasportavano con gran fatica una pesante bombola di ossigeno. L’ossigeno è stato ordinato dal medico, per salvare in extremis l’inquilino del terzo piano da un collasso cardiocircolatorio con gravi complicazioni polmonari. E’ un anziano. Esce a passeggio tutti i giorni alla stessa ora, camminando a fatica, sorretto dalla moglie.

Incontrandomi abbozza un sorriso e sussurra: “Avevi ragione, lo vedi che è successo?”. Si riferisce alle mille volte che, vedendolo con la sigaretta in mano, ho tentato con ogni mezzo di dissuaderlo. Mai dicendogli che il fumo fa male, che i suoi polmoni si contorcono in spasmi soffocanti a ogni boccata di fumo. No, semplicemente puntando sull’intelligenza, suggerendo l’analogia con qualcuno che versa una bottiglia di aceto nel serbatoio dell’automobile e si lamenta perché il motore funziona male o addirittura smette di funzionare.

Allora arrivano le battute classiche della disperazione di cui ogni fumatore è portatore sano: “A me piace fumare e poi se faccio del male lo faccio a me stesso”. Oppure: “Ma io conosco un vecchietto di novantadue anni che fuma un pacchetto di sigarette al giorno e sta benissimo”. E negli occhi del fumatore leggo chiaramente un guizzo di autocompassione. Del resto, nella densità di ansia sociale ed esistenziale, nell’assoluto nulla interiore che caratterizza l’Occidente, fumare rivela un minimo indispensabile di disperazione.

E allora cito il caso di un muratore di Frosinone caduto dal terzo piano su una montagnola di sabbia. Non soltanto ne è uscito illeso, ma è guarito da una grave forma di sciatica che da anni lo tormentava. “Allora?” – chiedo – “da oggi proponiamo di curare la sciatica buttando le persone dal terzo piano?”. Il fumatore ride e si allontana, sicuramente va ad accendersi una sigaretta.

Ma ciò che ha spazzato via ogni mia speranza di convincerlo è accaduto questa mattina quando, scendendo a piedi le scale, l’ho sorpreso seminascosto dietro i vasi di fiori, accovacciato a fumare. E quando incrocia il mio sguardo porta il dito indice sulle labbra e, alludendo alla moglie, supplica: “Non mi tradire per carità”. Mi chino su di lui e lo rassicuro, anzi, mi viene un’idea. Gli chiedo di offrirmi una sigaretta e lui stupìto e al tempo stesso estasiato dalla mia insperata complicità, toglie dalla tasca del pigiama il pacchetto e con debole sorriso straziato dalla sofferenza me ne offre una. Sta per porgermi i fiammiferi, ma io gli faccio cenno che non servono, poi prendo la sigaretta tra le mani e dico: “Vedi, io fumo così. Invece di farmi distruggere dalla sigaretta faccio esattamente il contrario, sono io a distruggere lei”. Poi, sotto il suo sguardo allibito, comincio a distruggere pian piano la sigaretta.

L’ho immaginato che rientrava in casa, poco dopo, sconvolto dal mio modo di fumare, per raggiungere ansimante la bombola dell’ossigeno, nell’impossibilità di associare la propria ossessione a una fatale e definitiva negazione della vita. Ha dimenticato le sigarette sul vaso. Leggo sul pacchetto abbandonato la scritta “Il fumo uccide”. Capovolgo il pacchetto e sul retro “Il fumo nuoce, gravemente, al bambino durante la gravidanza”. Ovviamente si tratta di un messaggio ipocrita del maggior spacciatore di fumo: lo Stato.

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