I am engaged!, campeggia il post sotto il quale una giovanissima coppia mostra alle centinaia di amici digitali la foto in cui il ragazzo, inginocchiato, chiede di diventare sua moglie alla ragazza di fronte, emozionata e incredula. Delle studentesse universitarie che hanno studiato con noi in Italia negli ultimi anni, già diverse sono convolate a nozze e quando l’hanno fatto avevano appena compiuto 21 anni. Le immagini mostrano visi palesemente sognanti, ma quel grizzly cinico e bellicoso che alberga dentro di me fa molta fatica a vedere un happily ever after sulla strada di queste ragazze troppo giovani e un po’ ingenue.

Non posso fare a meno di chiedermi come reagirei se una delle mie figlie, arrivata a quell’età, mi dicesse di essere pronta per fare il grande passo. Ho il sospetto che la bestia comincerebbe a ringhiare, a saltare e a ribellarsi. Chiaro, non avrei mezzi (e nemmeno vorrei usarli) per contrastare quella scelta, ma non sarei contenta. Si può affermare, non senza una certa provocatoria forzatura, che sposarsi a vent’anni in occidente non è molto dissimile da quel che avviene alle spose bambine in paesi lontani?

Nel nostro caso non sussiste alcun obbligo, e questo di per sé sottolinea la differenza tra le due situazioni, ma è altresì vero che in alcuni contesti sociali e culturali, anche nel cosiddetto mondo moderno, ci sono pressioni sottili che influenzano certe scelte. Quando le ragazzine diventano giovani donne la tentazione di vederle prima di tutto spose, e a seguire madri, è ancora molto forte.

Per molti genitori della precedente generazione è una sorta di lieto fine vederle indossare un abito da sposa (bianco e in chiesa, of course) o spingere quella stessa carrozzina che una volta le aveva cullate. Più inconsueto è invece immaginare le proprie figlie lavoratrici indipendenti o studentesse impegnate. In ogni caso, il ritratto che si ha di loro è quasi sempre abbinato a una figura maschile, perché una donna che rimane cane sciolto suscita scompiglio e destabilizza lo status quo di certe fantasie famigliari.

Ho incontrato qualche giorno fa un’amica che non vedevo da anni. La figlia va in seconda media e quest’estate festeggia (la madre pigolava) un anno di “fidanzamento”. Sono scoppiata a ridere, anche un po’ sguaiatamente, per poi riprendermi un attimo dopo: non c’era alcunché di ironico e la dichiarazione della sciura era serissima.

I legami tra giovanissimi ricevono l’avallo genitoriale anche prima delle scuole medie, e soprattutto nei centri più piccoli, dove si vive in una grande famiglia vagamente incestuosa, già alle elementari inizia per gioco il toto-matrimonio e i primi pruriti da parte di madri, che nel sognare accoppiate le proprie figlie con il “partito giusto”, scansano dalla bocca quel gusto amaro causato dal proprio fallimento.

Il punto non è solo trovare l’uomo giusto, il punto è vivere. E per la donna, che per secoli è passata dalle mani del padre a quelle del marito, riuscire a farlo è ancora più importante. Vivere per sperimentare, capire e sagomare la propria identità scollata e distinta da quell’altro che inevitabilmente si finisce per assimilare quando si vive in coppia.

Si può e si deve amare lungo la strada, concedersi e sbagliare, imparare a vivere contando sulle proprie forze emotive e caratteriali senza dipendere dall’altro e diventare donne consapevoli del proprio valore, in grado di sapere quando è arrivato il momento di camminare mano nella mano con qualcun altro. Quando sono nate le mie figlie non ero certo nei miei 20 anni e so che potrei perdermi molti anni della loro vita da adulte; questo è un aspetto con il quale faccio i conti accettandone le conseguenze.
Confesso, però, che prima di averle avute, ho preferito vivere.

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