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Petrolio, guerre e clima: siamo catastrofisti? No, ragionevolmente previdenti

Petrolio, guerre e clima: siamo catastrofisti? No, ragionevolmente previdenti
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Mentre Donald Trump non ottempererà alla riduzione di emissioni di CO2 e Paolo Gentiloni continuerà a far finta di niente pensando a quanto durerà il suo governo, mentre il ministro Carlo Calenda svolge svogliate consultazioni su una Strategia economica nazionale basata sulle fonti fossili trasportate dai luoghi di guerra e terrore e a fatica si prepara l’appuntamento di Bonn per la Cop 23, mi è venuto in mente un episodio di alcuni anni fa, al solito affogato nel quotidiano e nemmeno sfiorato dalla discussione di una “politica” tutta dedita a patteggiare leggi elettorali che fanno vincere tutti, indipendentemente dal pronunciamento e dalla partecipazione della maggioranza dei cittadini.

Un ministro yemenita formato in un’università straniera, con una buona conoscenza della situazione nel suo paese e della scena internazionale, incontrava quattro anni fa gruppi politici e ambientalisti ed io ero presente. La discussione era preceduta dalle straordinarie immagini di Pasolini sui paesaggi e le torri di Sanaa oggi in gran parte in macerie. La curiosa analisi di questa persona era che, nonostante percepisse il rischio imminente di una guerra civile nello Yemen, non era in grado di correlare questo evento calamitoso con il declino della produzione petrolifera nazionale. Non voleva cioè convincersi che l’arrivo nei giacimenti dello Yemen del picco del petrolio era economicamente insostenibile in mancanza di alternative previste per quel paese, pur così ricco di sole mai preso in considerazione come fornitore di energia. Una civiltà millenaria, di enorme fascino culturale e artistico si era affidata alla geopolitica delle fonti fossili. Sfortunatamente per lo Yemen, la guerra l’ha diviso in sei parti, mentre sanguina in una guerra civile senza fine guidata da una coalizione di Stati arabi con in testa l’Arabia Saudita, massima detentrice con il Qatar delle riserve fossili nell’area (allora… perché no una guerra prossima anche col Qatar? Dopo l’acquisto di velivoli per 10 miliardi di dollari, girati da Trump in un pomeriggio di visita a Riyad?).

Siamo in regioni del pianeta dove conta di più quel che c’è sotto – finché c’è – e ce lo ha insegnato ancora Trump quando ha fatto scoppiare in Afghanistan la “madre di tutte le bombe” come anticipo di una piccola atomica tattica, tanto per abituarci all’idea.

Il collasso dello Yemen e le guerre del Medio Oriente sembrerebbero in definitiva una partita tra possessori di riserve di petrolio in evidente esaurimento. Avere tante prove che abbiamo superato il picco del petrolio del greggio convenzionale – che probabilmente avrà già superato il picco del petrolio di tutti gli idrocarburi liquidi con in più carbone e uranio ormai vicini – ci pone di fronte all’assoluta mancanza di proattività delle autorità politiche di anticipare i problemi.

Ma, in mancanza di una politica energetica alternativa e lungimirante anche l’Europa finirebbe con l’usare la forza militare in modo sistematico per garantire il flusso di risorse considerate essenziali per il mantenimento della società industriale, con tutte le conseguenze di un autoritarismo interno in crescita e con una forte repressione del dissenso. Ci si muove in direzione conservatrice se non reazionaria, freddamente tecnocratica in economia e sulla linea di una crescita delle disuguaglianze a tutti i livelli. Sembrerebbe che le fratture che hanno caratterizzato la storia recente pos­sano essere ricomposte con un impudente ritorno al passato e la riproposizione di un presente che prenota il futuro come sua pura reiterazione.

E’ quel che accade passo dopo passo nella dissoluzione dell’Europa solidale e sociale che conoscevamo e che annuncia, giorno per giorno, un avvicinarsi al collasso senza quello scatto che l’aveva liberata da secoli di guerre. Credo che una politica all’altezza debba fornire ai cittadini “appigli concettuali” che possono essere utilizzati per riconoscere gli eventi oltre l’aspetto psico-emotivo: l’irreversibilità della crisi climatica, l’espulsione dal lavoro dignitoso, la povertà, l’imprevidente e imprudente ostilità all’immigrazione.

La miopia del dibattito politico in corso e la lunga persistenza delle idee chiave inculcate con la propaganda, offusca i punti di vista e non ci pone in grado di riconoscere il collasso, che è il primo passo per reagire. In definitiva, viviamo in tempi di rapidissimo irreparabile cambiamento, ma che le classi dirigenti non riconoscono come segno dei tempi. Siamo cioè di fronte a un mutamento di civiltà, che richiede di applicarsi innanzitutto alla sociologia delle emergenze, proteggendosi dalla “paura della paura” e interpretando e incoraggiando le tendenze anche scomode che possono essere determinan­ti per il futuro, a discapito di un “presentismo” che si limita a spostare la notizia di ieri per sostituirla con quella di oggi, altrettanto irrilevante tranne che per i talk show.

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