La porta in ferro era chiusa a chiave dalla sera prima. Lei e le altre 67 donne prigioniere aspettavano l’alba della domenica. Un giorno di festa in qualche altra parte del mondo e a Niamey. Il 25 dicembre c’è un pezzo di carne e una bibita in più per i detenuti. Nella sala ci sarebbe posto per 17 donne. Ora c’è uno in più, condannato dalla nascita dalle 3 di mattina di quel giorno. Un coltello da cucina per tagliare quanto ancora lo legava alla madre. Un grido di saluto e poi il primo pranzo regale nella Casa di Arresto della capitale. Si sono svegliate tutte e hanno battuto la porta in ferro a lungo. La madre perdeva sangue e le altre, più esperte, la consolavano e le prodigavano consigli. Il suo primo figlio è nato in prigione il giorno di Natale. C’erano tutti: il coro degli angeli, le trombe del paradiso e poi le campane inesistenti che suonavano in silenzio. Da una madre detenuta era nato Issa, condannato dalla nascita il mese di dicembre passato.

Tra loro nascono liti per futilità, gelosie e divisioni a seconda dei giorni. A volte nascono pure i bambini e sono i più bei momenti che mai possano arrivare in un carcere. Fanno a gara per tenerli, accudirli, nutrirli e poi farli giocare sulle ginocchia. Mentre passano le settimane tengono in mente la data di nascita e il nome senza il padre. Imparano a tessere, cucire e cuocere dolci da smerciare al mercato interno. Ogni tanto qualcuna del gruppo è libera di partire e in cambio ne arrivano tre da iniziare alla vita di detenute. Ma quando nasce qualcuno tutto cambia. La porta della cella si apre come d’incanto e il forno di terra diffonde il sapore della famiglia lontana. Avevano preparato insieme un maglione per l’occasione, più grande in previsione del tempo che rimane. In dicembre la notte è fresca e il neonato va coperto e protetto dalle zanzare che gli danzano attorno. Si chiama Issa ed è stato condannato dalla nascita senza nessuna sentenza.

Il cortile dei bambini detenuti si trova dalla parte opposta. La metà dei prigionieri è accusata di simpatie con Boko Haram. Per la circostanza hanno ricevuto una maglietta bianca riciclabile per l’anno prossimo. Fanno giardinaggio per completare il menu e giocano interminabili partire a calcio con un pallone condannato a vita. Altri imparano un mestiere per quando l’ora della libertà suonerà all’improvviso e alla porta non troveranno nessuno ad aspettarli. Fanno disegni sui muri di cinta con gessi di carbone che non si cancella più. Pochi sanno scrivere e allora inventano parole nuove senza confini grammaticali. Non solo mai stati liberi dalla fame e un giorno gusteranno l’amaro gusto di sabbia della libertà. Mandati a mendicare  una notte di settembre hanno deciso di scappare e di vivere, di nascosto, sulle strade della città. Invisibili e presi a prestito dal destino e dalla dimenticanza. I grandi pensano ad abbellire la città coi lampioni a pannelli solari.

Nel mezzo c’è il carcere degli uomini che per dormire si danno il cambio. Seduti, sdraiati, in ginocchio, accovacciati, stesi, vicino alla porta o alla finestra. Tutto ha un prezzo e uno spazio conseguente. Da 350 posti disponibili siamo saliti a 1040 a seconda dei giorni, delle ore e delle morti per malattia. Si trovano nel fabbricato di mezzo, tra le donne e i bambini. Mangiano occasionalmente il cibo confezionato dalla cucina e, per chi la famiglia è lontana, sopravvivere è questione di sorte o di soldi. Nel mercato del carcere si trova quanto basta per arrivare al giorno dopo. Il peggio è il caldo del giorno e la notte per dormire. Si fanno i turni e il posto costa quattrini e abilità fisica. Altre centinaia di sospetti Boko Haram sono detenuti altrove e forse, dopo oltre un anno di attesa, passeranno in giudizio. Che la legge sia uguale per tutti è occasionalmente possibile. Più complicato è credere che tutti siano uguali davanti alla legge.

Erano le tre di mattina con la porta di ferro sbarrata. Issa arrivava senza porre condizioni nella cella delle donne. Suonava come un organo in chiesa il suo primo grido di libertà.

Niamey, gennaio 017

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