ROMA– Michele Santeramo si traveste da Tom Stoppard e ci conduce nelle pieghe secolari di quell’Amleto che a distanza di quattrocento anni ogni volta che lo rileggiamo, che ci soffermiamo su un passaggio o un personaggio, un silenzio o una scena fin lì ritenuta secondaria e marginale, apre non delle finestre ma delle vere e proprie voragini dove cadere, cedere, farsi risucchiare. Se Stoppard, con Rosencrantz e Guildestern sono morti (citiamo anche il Before Hamlet di Stefano Massini), ci mostrava i punti deboli e le possibili coincidenze che, se lette in versione brillante, facevano del dramma shakespeariano per eccellenza una serie interminabile di imprese mal riuscite e guascone e cialtrone e improvvisate andate in malora, il Preamleto (produzione Teatro di Roma) che riunisce l’ex coppia dell’ormai perduto Teatro Minimo di Andria, Santeramo e Michele Sinisi, rimane a cavallo di una doppia briglia con un canovaccio di tragedia e inserti burleschi o con un impianto frizzante e intercalari tragici.

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Non prende però una linea precisa (la regia di Veronica Cruciani asseconda quest’alternanza e questa altalena di up and down) e questo destabilizza. E’ proprio la bipolarità del testo che effettivamente spiazza come un coitus interruptus e lascia interdetti ogni volta sul più bello, come un gioco dell’oca quando sei vicino alla conclusione e devi ritornare daccapo, che richiede una tale manipolazione che, a tratti, rimane tecnica forzata restando in superficie in alcuni momenti chiave e spartiacque dove la penna del drammaturgo pugliese avrebbe potuto andare a fondo nel climax e scavare, e portarci in nuovi terreni. Invece si ha la sensazione di un lavoro che indugia sospeso tra quel che è (un bell’incastro di assonanze, comunque, ma incompiuto) e quel che poteva essere (un’idea croccante di senso con alte potenzialità).

I silenzi pastosi e spessi come mura d’incomprensione sono una preghiera che riveste questa palude fredda disegnata come un ufficio di cemento, assoggettabile ad un ridotto di un teatro, una soffitta, uno scantinato d’asfalto (la bocchetta rettangolare in alto ricorda quella dei vecchi cinematografi per far passare la luce del proiettore) dove una compagnia scalcinata tra provando l’ennesimo Amleto, tra dentro e fuori la commedia, dentro e fuori l’agonia della vita.

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La scena (evocativa, di Barbara Bessi), d’impatto alla Roy Lichtenstein, è in discesa di spigoli duchampiani, di angoli dechirichiani, tutto si sta dissolvendo in questa prospettiva deformante, distruggendo, liquefacendo, scendendo a valle, come valanga carambolando, come birilli da bowling impossibili da fermare; le ombre che ingigantiscono le paure (contribuiscono le tagliate e ricercate luci di Gianni Staropoli), sono tono su tono dal grigio calce fino al nero tempesta luttuosa, mentre spicca solo il rosso di Gertrude-Manuela Mandracchia, un fil rouge che tutti accomuna e liscia, rosa spinosa con i suoi petali a farle da corollario, mantide, pianta velenosa: ora moglie, ora madre, ora amante, è lei il pallino del discorso, il fulcro con il quale fare i conti, il centro attorno al quale tutto gira e frigge come vinile.

Santeramo-chef ha frullato e centrifugato il bardo di Stratford upon Avon, e non solo, miscelando i sapori. Il risultato dello psicodramma è irrisolto, sa leggermente di patchwork non così impastato, di mosaico non così amalgamato: Gertrude è Lady Macbeth che tutto architetta, è Medea che avvampa, il Padre di Amleto (Massimo Foschi, regale, di sostanza) è un Enrico IV pirandelliano, è Lear escluso dal potere, Claudio-Sinisi (ancora una volta una garanzia, attore di razza) e Polonio-Gianni D’Addario (troppo sopra le righe la sua spinta al burlesco e farsesco) sembrano citare Benigni e Troisi di Non ci resta che piangere. Adesso prendiamo le difese dell’uno, ora ci è nostro nemico, ora parteggiamo per l’altro, cambiando bandiera sotto la quale stare, ogni personaggio è ora depresso e sconfitto, poi vendicativo e crudele e criminale.

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C’è un padre (potrebbe essere un re ma anche il padrone di una fabbrichetta del Nord Est) che si finge matto (come nell’originale, Amleto con Ofelia) per proteggere il figlio (“Lascia a loro la commedia del potere”) dubbioso, incerto, tentennante, ancora non del tutto adulto (Matteo Sintucci, “il ragazzo si farà anche se ha le spalle strette”), un Claudio non così assetato di potere (Raul Castro con Fidel). Nel parallelismo Shakespeare-Cervantes (deceduti lo stesso giorno dello stesso anno, 23 aprile 1616) ci sono molti punti di contatto tra questa coppia Padre-Amleto e quella formata da Chisciotte e Sancho. Le parole s’inseguono, si contorcono labirinticamente in questa tragedia che trascende nel thriller, in questo western tarantiniano claustrofobico, in quest’ascensore per l’inferno che non può essere l’antefatto dell’Amleto.

Visto al Teatro Argentina, Roma, il 10 aprile 2016.

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