La maggior parte del nostro tempo se ne va in mosse aggressive o intese a parare le aggressioni altrui. Il conflitto degli appetiti rientra nella selezione naturale, anche gli altri animali combattono per il territorio, il cibo o le femmine; sennonché il mondo umano pullula di impulsi apparentemente gratuiti ossia sfogati in atti che non giovano a chi li compie e qualche volta gli nuocciono. A proposito di questi ultimi, Friedrich Nietzsche parla di “malvagità disinteressata” e Baruch Spinoza di “Sympathia malevolens”. Sigmund Freud enumera le tentazioni verso il nostro simile: “sfruttare il suo lavoro senza compenso, usarlo come oggetto sessuale senza il suo consenso, derubarlo dei suoi beni, umiliarlo, farlo soffrire, torturarlo, ucciderlo”.

A parte la misura degli effetti, qui ci sono delle differenze di qualità. Impadronirsi dell’Altro come bestia da soma o strumento sessuale, rientra nella logica degli appetiti, come l’uccisione del nemico. Quando, però, l’impulso a far soffrire il prossimo non ha giustificazioni economiche, è un atteggiamento pervertito, da mettere in conto all’istinto di morte: nella psicanalisi freudiana prende il nome di Thanatos, il dio che, nella mitologia greca, personifica la morte, antagonista di Eros nel possesso del mondo. E forse proprio di “malvagità disinteressata” parrebbe si debba parlare, a proposito dell’omicidio di Luca Varani, torturato e ucciso nel salotto di un anonimo appartamento in via Giordani al Collatino.

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Per quanto trapela dalle maglie del segreto investigativo, i due presumibili assassini, avrebbero passato due giorni intensi, dal mercoledì precedente al delitto, chiusi nell’appartamento, consumando circa mille euro di cocaina e bevendo fino a stordirsi: una macabra “due giorni” che non ha fatto altro che accrescere il loro malessere e renderli più aggressivi e violenti, tanto da arrivare ad uscire di casa soltanto per poche ore, in cerca di qualcuno su cui scaricare le loro micidiali pulsioni. E lo avrebbero fatto se avessero trovato la persona adatta. Stando all’ordinanza che ha disposto la custodia cautelare in carcere, i due indagati, i quali continuerebbero ad accusarsi a vicenda, sarebbero individui “privi di pietà” e il movente della “fredda ideazione, pianificazione ed esecuzione” di quel delitto “efferato, preceduto da sevizie e torture” somministrate alla vittima, sarebbe da ricercare nel “crudele desiderio di malvagità”.

La narrazione dei fatti di cui a quell’atto giudiziario, il cui merito, mancando dati certi di conoscenza, sarebbe temerario esaminare, precipitano in un inferno dostoiewskiano, dove i delitti nascono dalla vertigine della libertà, che può scegliere tra il bene o il male. Ma gli autori del massacro di via Giordani, esseri che incarnano la mediocrità dell’oggi, non partecipano della grandiosità dei criminali descritti dal profeta russo della volontà libera. Che senso ha, infatti, comparare Manuel Foffo e Marco Prato al piccolo funzionario di Pietroburgo, autore delle Memorie del sottosuolo, cosciente dell’illimitata potenza della sua libertà interiore, violentemente tentato di affermare tale libertà mediante atti assurdi, senz’altra giustificazione se non il fatto che egli li ha voluti?

Sarebbe forse più seriamente sostenibile che i due abbiano ceduto alla tentazione di provare quella libertà che spinge Rodion Romanovič Raskol’nikov di Delitto e castigo, a commettere l’assassinio dell’usuraia? Certo, volevano anch’essi vedere quel che sarebbe accaduto, se fossero usciti dai sentieri battuti, ma entrambi, o almeno uno di loro, si sarà chiesto, come fa invece Raskol’nikov, se fosse o non fosse “un pidocchio della terra”, un pidocchio che si potesse schiacciare, o non piuttosto uno dei potenti che hanno il diritto al delitto? Ammesso e non concesso che il confronto possa reggere, nelle teste di Manuel Foffo e di Marco Prato albergavano le idee romantiche che si trascinano nella testa di Rodion Romanovič Raskol’nikov, dietro le quali c’è la tentazione di fare un atto “inedito” tanto per provare? Se anche a tutte queste domande, affatto irrealisticamente, si potesse rispondere affermativamente, siamo comunque anni luce lontani da Ivan Karamazov, il quale, desiderando con fredda volontà la morte di suo padre, fa capire a Smerdiakov, servo ossequiente e troppo ben pettinato, ma anche figlio naturale di Fiodor Karamazov, dunque suo fratellastro, che “tutto è permesso”, così da spingerlo a commettere il parricidio, senza sporcarsi le mani.

Ho volutamente lasciato alla fine il più diabolico dei personaggi dostoiewskiani e di tutta la letteratura occidentale: Nicola Vsevoldovic Stavrogin. Con lui, infatti, si tocca il fondo della Sympathia malevolens. Dotato d’indubbio carisma, è seducente, è intelligente, è un principe, Stavrogin si compiace di andare a picco, di avvilirsi: ha voluto provare la sua forza, come dice, e l’ha trovata “illimitata”. Non sapendo, però, a cosa applicarla, avendo egli rifiutato Dio, la rivolge contro di sé.

Stavrogin “fa tutto, solo per passare il tempo”: viola la piccola Matrioscia, figlia della sua padrona di casa, non per sensualità, ma per noia; gioca allo stesso modo con l’anima di Sciatov e di Kirillov: per un verso, convince costui che l’uomo è Dio e che l’unica cosa che possa fare per dimostrarlo è suicidarsi; per l’altro, demone che non crede, rende tuttavia la fede cristiana al primo, che verrà perciò ucciso dai complici. Anche Foffo e Prato sono “dannati per noia” e magari sono convinti come Stavrogin che la sola cosa che appartiene all’uomo è il nulla. Diversamente da lui, tuttavia, nel sopprimere Luca Varani, non si può dire abbiano agito come Stavrogin, da angeli delle tenebre.

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