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Appunti dal mondo a km zero – Tel Aviv

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Foto di Menahem Kahana. Dietro il muro di un asilo, dei bambini puntano le loro armi giocattolo contro Gaza, kibbutz Nahal Oz, Israele, 8 settembre 2014

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– Ma italiana italiana? Anche tuo padre?
– Anche mio padre.
– Anche tua madre?
– Anche mia madre.
– E il padre di tuo padre?
– Non sono araba.

In Israele, in questi giorni, hanno tutti paura. E si improvvisano tutti poliziotti.

Non solo gli israeliani. Nel senso: gli ebrei israeliani. In realtà abbiamo tutti paura. Paura di essere accoltellati, ma anche paura di essere scambiati per accoltellatori, ed essere accoltellati da chi ha paura di essere accoltellato. Al solito: saranno raccontati così, un giorno, questi giorni: stava per uccidermi per autodifesa, ho dovuto ucciderlo per autodifesa.

Mentre dagli spalti, intanto, il mondo fa il tifo.

E molti, ovviamente, tifano per i palestinesi. Esempio di battaglia infinita per la libertà. Di dignità e orgoglio: contro tutto e tutti. Anche se a me, onestamente, tutto questo sembra più disperazione che coraggio. La prima Intifada aveva un progetto, un obiettivo: i due stati. E la seconda Intifada, se non altro, dopo il fallimento di Oslo, aveva una struttura. Un’organizzazione. Questa, invece, è violenza individuale. E casuale. Non solo manca una leadership, tra Fatah collusa con Israele e Hamas che pensa più alla sua sopravvivenza che ad altro, ma anche la società civile è ora sfibrata. Negli ultimi anni, gli attivisti sono stati sostituiti dai dipendenti delle Ong, usate più come mezzo di welfare, con salari e fondi distribuiti a pioggia, che di democrazia e partecipazione.

E ai ragazzi, adesso, non rimane che accoltellare il primo che passa.
Consapevoli poi di essere uccisi.
Non bisogna essere eroi, per una cosa così. Bisogna essere veramente disperati.

Anche perché, con Mahmoud Abbas che ha già compiuto 80 anni, questi ragazzi saranno presto sfruttati per i giochi di potere legati alla successione. Ma il contesto internazionale è quello che è. Ed è la maggiore differenza rispetto al passato. La questione palestinese è ora secondaria rispetto all’emergenza islamista. Gli scontri, se anche dovessero durare, non otterrano niente. O meglio: otterranno un ulteriore consolidamento del dominio israeliano. Perché il dramma dei palestinesi è che qualsiasi cosa tentino, ormai, la resistenza armata come a Gaza, o all’opposto, il negoziato, la normalizzazione come nella West Bank, sono in trappola: tutto va a favore di Israele. Che intanto costruisce, costruisce, costruisce. E si divora il loro stato.

E la loro società.

I palestinesi, da soli, è inutile: sono al giogo di Israele.
Al più, possono assassinare uno a caso, per strada, e farsi assassinare.

In tanti, d’altra parte, tifano Israele. Questa è la prova della vera natura dei palestinesi, ti dicono. Tutti intenti a difendere la sola democrazia del Medio Oriente.

Mentre tu, per difendere te stesso, ti ritrovi a dire a un barista che presidia armato la porta del tuo caffè preferito: non sono araba, no. I am purely Italian. L’ultimo ad avere usato un aggettivo così, nella mia famiglia, deve essere stato il mio bisnonno. Che era un gerarca fascista.

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