Strana sorte quella delle cosiddette avanguardie in poesia.

Mentre nelle altre arti il loro segno è rimasto, in qualche misura, indelebile e nulla dopo è più stato lo stesso, in poesia, invece, nonostante Futurismo, Cubofuturismo, Dada, poesia sonora, visiva, concreta, Fluxus, tutto sembra sempre tornare a quel punto di partenza del Moderno che è il verso-liberismo lirico e sostanzialmente simbolista.

Come un vecchio vinile, che sia rimasto incantato su un solco graffiato, incapace di riprodurre la frase successiva, il mainstream poetico italiano ripete ossessivamente la stessa solfa, sia pur modulata in numerose e diverse sfumature.

Certo, come riproporre, oggi, le ricette futuriste? Come sfuggire al paradosso che le ha rinchiuse nel Museo? Ovvio: nell’epoca dell’ormai è stato già tutto fatto, il problema di épater les bourgeois non si pone: nemmeno ci sono più les burgeois… Ecc…

Eppure, in poesia, tanto e forse ancor più che nelle altre arti, appare evidente come – scrostato dalle evenienze storiche, dalle allure ‘militari’ e dalle illusioni ingenuamente ‘progressive’ e storiciste – ciò che han fatto le Avanguardie lo fan tutti, da sempre.

Tutto il susseguirsi delle differenti poetiche che, nella lunga storia della poesia occidentale, giungono da una ‘periferia’ per conquistare il centro della semiosfera poetica, altro non è che un succedersi di successive novità, di ‘avanguardie’ che spazzano il campo dal passato e sperimentano e poi impongono nuovi parametri estetici.

Sto dicendo proprio questo: che la Tradizione, in fondo, è solo genealogia delle Avanguardie.

Né sono il primo a leggere caratteristiche d’avanguardia, ad esempio, nello stilnovismo, con i suoi ‘fedeli d’amore’, ben coscienti delle condivise novità, né, peraltro, mi sembra diversa l’operazione di innovazione e poi colonizzazione delle forme e dei loro aspetti simbolici tanto magistralmente realizzata da Petrarca.

Se inizio qui un discorso tanto complesso da non potersi certo sviluppare in questa sede, è per introdurre l’opera di due ottimi poeti, spesso considerati d’avanguardia proprio per potersi più facilmente liberare della loro ingombrante presenza, respingerli ai margini della poesia (mentre, invece, ne sono al centro) e tornare alle rassicuranti pagine del libro, sempre uguali a se stesse, mentre invece il loro legame con la, o meglio le Tradizioni è fortissimo e assolutamente pregnante.

Massimo Mori è uno più raffinati autori italiani (Premio Lerici Pea per la poesia intermediale 2014), strettamente legato a un’idea di ‘poesia totale’ che non intende negarsi alcun aspetto di quest’arte plurale.

Esce in questi giorni il suo Padrelingua, libro + dvd (Morgana ed.) che proprio a Dante ritorna e da Dante riparte. Non a caso alla Casa di Dante, a Firenze, è stata ospitata la mostra omonima che accompagna il libro.

Si tratta di una complessa e affascinate operazione di trasformazione del testo dantesco in opera di poesia visivo-concreta a partire da una vecchia copia della Commedia, usata dal padre, che viene prima strappata e poi ricomposta all’interno di una serie di schemi disegnati dalle parole di Mori stesso, con un’allusione evidente a quella frammentazione della conoscenza indotta dalla digitalizzazione globale del sapere.

Il compito del poeta, allora, come quello dell’architetto romanico, sarà ricostruire dai frammenti, riedificare con le rovine.

Ma Mori è autore pluriverso e per lui la poesia non sta solo nelle operazioni ‘concrete’ e visive, immobilizzate sulla tela, o sulla carta, ma anche nel corpo stesso del poeta nella sua gestualità che percorre lo spazio e lo descrive, facendolo apparire dove prima sembrava ci fosse solo il vuoto.

A partire dalle tecniche e dalla prossemica raffinata e antichissima del Tai Chi, di cui è maestro, Mori costruisce performance complesse dove voce, parola, gesto si fondono, come nella sua più nota tra esse, Combattimento con l’ombra: ancora una volta antica tradizione e spericolata sperimentazione si fondono per trovare nuovi equilibri di senso.

Ma – e proprio a causa del già citato paradosso che infine imprigiona l’Avanguardia nel Museo – esiste ormai una ‘tradizione delle avanguardie’ ed è a essa, nella sua globalità pluriversa che si è rifatta da decenni l’esperienza poetica di un ‘grande vecchio’ come Arrigo Lora Totino: per mescolarne tutti i fili, intrecciarli, farne nascere nuove radici, saltando, senza imbarazzo alcuno (e sempre sulle ali di quella che definirei una ‘celeste ironia’) dal futurismo a Dada.

A lui, in occasione della mostra antologica tenuta alla Barriera di Torino a settembre, è dedicato lo splendido volume collettaneo Arrigo Lora Totino – La parola come Poesia Segno Suono Gesto. 1962-1982 (Danilo Montanari ed.), a cura di Giorgio Maffei e Patrizio Peterlini, rassegna vasta e arricchita da centinaia d’immagini e foto che fanno un bilancio vastissimo della sua opera.

Partito da esperienze pittoriche, Lora Totino si è poi subito convertito alla centralità della parola, non solo riprendendo e arricchendo la tradizione futurista (inventa un ‘idromegafono’ per produrre poesia ‘liquida’, ma anche altre macchine sonore come il ‘Tritaparole’ e il ‘Mozzaparole’, è l’iniziatore della ‘poesia ginnica’ che di fatto riporta per la prima volta in Italia la gestualità nella poesia), ma soprattutto svolgendo una vasta complessa attività di poeta ‘concretista’, lavorando sul corpo delle ‘lettere’, sul loro supporto materiale – il segno grafico – colorandole, stirandole, facendole vorticare nello spazio e raggiungendo risultati di assoluto valore che lo renderanno tanto conosciuto nel mondo quanto guardato con sospetto in Italia.

Le sue fotografie ‘dinamiche’ fanno diventare la poesia-performance una macchina capace di produrre arte anche dopo, quando l’evento è passato, con i loro scatti ‘mossi’, accordati con lettere e brevi parole che continuano a rivolgersi allo spettatore. E poi sempre a lui si deve la fondazione di riviste importanti per la sperimentazione poetica internazionale, come “Modulo” e “Antipiugiù”.

Insomma, un vero Maestro e che si parli ancora così poco di lui qui da noi, non è che la riprova che, come il Maggior nostro nel Convivio, Arrigo ha scelto per sé un pubblico che ancora non c’è, ma certamente presto ci sarà.

A ricordarci, per tornare da dove eravamo partiti, che il padre di tutte le avanguardie in poesia è proprio lui, colui che ha fondato anche il Canone: Dante.

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