FavelaBacchetta

A quasi un anno di distanza dalle ultime elezioni presidenziali in Brasile che hanno confermato Dilma Rousseff al fotofinish sul suo diretto avversario Aécio Neves, il quadro sociale ed economico brasiliano sembra peggiorare. Le manifestazioni di questi giorni contro il governo hanno portato in piazza, solo a Rio, oltre 100mila persone. La corruzione che coinvolge il Pt (Partito dei lavoratori) al governo e gruppi imprenditoriali legati alla politica è in costante aumento e lo scandalo Petrobras non sono serviti da lezione alla classe dirigente, che continua nei fatti a rinnegare la retorica delle sue dichiarazioni.

Mensalão è il codice usato da Aécio Neves e dai giornali a lui connessi – Veja e Folha – per definire la mazzetta mensile che membri del Congresso, legati al Partido dos Trabalhadores, avrebbero intascato dal 2005 tramite il money-laundering avallato da Petrobras, colosso di Stato del petrolio, ai fini di supportare con i propri voti il governo al Congresso. Una mazzetta succosa secondo Paulo Costa, ex dirigente e testimone-chiave pari al 3 per cento dell’intero volume d’affari dei contratti energetici

Mentre Lula da Silva uscì indenne dall’inchiesta, 50 politici furono coinvolti – ministri, governatori di Stato, senatori e congressisti – alcuni dei quali già dietro le sbarre. Inoltre, alle presidenziali, i socialdemocratici di Neves rischiarono di farcela, e il Pt vinse con scarto minimo. 

La perdita di denaro pubblico, causata dallo schema di corruzione, è stata di recente quantificata in circa 33 miliardi di reais (circa 8,5 miliardi di euro). Il capitolo più infamante è costituito dall’acquisizione della raffineria americana Pasadena per un miliardo netto di dollari, quando solo pochi anni prima una compagnia belga l’aveva pagata 50 milioni di dollari. L’operazione fu avallata dalla stessa Rousseff, contemporaneamente presidente del Brasile e del direttorio Petrobras.

L’inchiesta Lava-Jato (autolavaggio), una sorta di “Tangentopoli” brasiliana, sta partorendo un altro scandalo, quello della diga Belo Monte, in corso di realizzazione nel cuore dell’Amazzonia, sul corso del fiume Xingu: un mega impianto, il secondo nel Paese, dopo Itaipu, al confine tra Brasile e Paraguay. Un progetto caldeggiato dalla giunta militare nel 1975 che ha subìto nel corso della sua storia varie interruzioni dovute all’opposizione degli indigeni e al ritiro del precedente consorzio.

La Corte Suprema ha sancito nel 2012 illegittime le proteste indigene, non avendo il governo l’obbligo di chiedere il parere delle etnie residenti riguardo la costruzione del sito e, di conseguenza, ha ordinato il ripristino dei lavori. L’agenzia brasiliana per l’ambiente Ibama ha valutato che il possibile impatto ambientale creato dalla diga dovuto all’emissione di metano per il deterioramento della foresta pluviale, sarà peggiore dell’inquinamento causato da un impianto a base di energia fossile, e che la deviazione del fiume causata dai canali artificiali, potrebbe ridurre dell’80 per cento il flusso idrico necessario alle popolazioni residenti.

Come se non bastasse si aggiungono: l’occupazione illegale del territorio da parte della forza lavoro emigrata, la rimozione forzata delle etnie più vicine al sito, la cancellazione di specie animali endemiche, la mutazione dell’orografia e gli allagamenti permanenti su aree abitate.

Secondo Eliane Brum, giornalista d’inchiesta e alcuni portali indipendenti (la grande stampa, more solito, quaggiù minimizza la questione) 8mila famiglie, circa 40mila persone sarebbero già sradicate da quei luoghi. Le compensazioni ricevute dai villaggi evacuati, sono ridicole: in due anni, migliaia di persone si son dovute spartire 30.000 reais mensili, meno di 8mila euro

Nel corso dell’inchiesta anti-corruzione è già stata accertata la tangente di 20 milioni di reais (equivalenti a oltre 5 milioni di euro) versata da una delle imprese, la Camargo Corrêa al Pmdb (Partido do Movimento Democrático Brasileiro).

Una goccia nel fiume, è la metafora. Si stima che siano stati stanziati 33 miliardi di reais  per finanziare le imprese incaricate dei lavori che, sommati a quelli dello scandalo Petrobas, fanno 66 miliardi, quindi circa 16 miliardi di euro. Denaro pubblico sottratto alla Banca per lo Sviluppo Economico e Sociale, destinato a finanziare infrastrutture, scuole e ospedali, da sempre carenti.

Foto di Flavio Bacchetta

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