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Burundi, un popolo in fuga dopo il putsch di Niyombare

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L’emergenza profughi non riguarda solo l’Italia e il Mediterraneo. Dallo scoppio delle violenze pre-elettorali in Burundi, nel cuore dell’Africa, più di 100mila persone sono fuggite per raggiungere dei Paesi limitrofi. Secondo i dati dell’Alto commissariato Onu per i rifugiati (Unhcr), oltre 105.000 persone hanno lasciato il Paese e sono fuggite in Tanzania (70.187), Ruanda (26.300) e nella provincia del Sud Kivu (9183) della Repubblica democratica del Congo (Rdc).

Burundi, migliaia in fuga verso la Tanzania

I rifugiati riferiscono che le autorità del Burundi hanno reso complicata la fuga dal paese. Secondo coloro che sono riusciti a raggiungere il Rwanda negli ultimi giorni, ci sono blocchi stradali e checkpoint dove la polizia o le milizie impediscono alle persone in fuga di continuare il loro viaggio verso il Rwanda. Tutto era cominciato con l’annuncio del golpe poi fallito del generale Niyombare che anticipava la presunta cacciata dell’attuale presidente Nkurunziza. In realtà c’è ancora molta incertezza in vista delle prossime elezioni presidenziali che rischiano di saltare o di essere rinviate. Il presidente del Burundi Nkurunziza che punta al terzo mandato, ritiene che la situazione sia sotto sotto controllo dopo l’arresto del golpista generale Godefroid Niyombare, nativo di Bujumbura e orfano di padre dall’età di tre anni.

Il generale Niyombare era diventato dopo la guerra civile capo di Stato Maggiore dell’Esercito per poi divenire nel dicembre 2014 capo del National Intelligence Service (SNR) per poi essere destituito a febbraio proprio dall’attuale presidente. Ma per capire bene alcune dinamiche attuali bisogna tornare agli accordi di Arusha in Tanzania dell’agosto 2000.

Gli accordi furono firmati dal Governo e da rappresentanze Hutu e Tutsi. Gli accordi di Arusha si articolavano principalmente in due parti: da un lato si prevedeva la creazione di un periodo transitorio di tre anni durante il quale per i primi 18 mesi sarebbero stati al governo i Tutsi, mentre per i successivi restanti 18 mesi gli Hutu. Al termine di questa fase transitoria si sarebbero svolte elezioni libere e democratiche; la seconda parte degli accordi prevedeva invece la creazione di un’Unità di Protezione Speciale, pariteticamente composta da Tutsi e da Hutu.

Questi accordi ovviamente non sono stati propriamente rispettati visto che il presidente Nkurunziza tra brogli elettorali e violenze sottaciute è stato eletto per due volte consecutive screditando gli stessi accordi per puntare oggi ad un terzo mandato. Attualmente però il Burundi più che una guerra etnica vive una lotta di potere serrata visto che nello stesso governo vi sono dei ministri Tutsi dal passato militante nei partiti duri e razzisti come quello di Bagaza; nel partito al potere il vice-presidente è un Tutsi e vi sono nel partito molti membri di un’etnia e dell’altra.

L’etnia è quindi soltanto il pretesto fondante per uno scontro di potere che non prevede sconti. In un clima così teso e controverso, nel paese considerato il più affamato dell’Africa, il tentativo di colpo di Stato è l’ennesimo campanello di allarme di una situazione già precipitata da tempo, le cui conseguenze saranno nuove proteste della società civile ormai ingestibile ed esausta.

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