L’ultimo tratto per la salvezza è quello in mare. Si parte dalla Libia dopo aver attraversato anche mezza Africa a piedi e trascorso mesi immobili ad aspettare un barcone. Con una bussola che punta al Nord. Quando prendi finalmente il largo sai che è quasi fatta. Per questo in mare persino le ombre risplendono di speranze. L’arrivo previsto è l’Italia. Per gli schiavi dell’immigrazione però l’importante è non finire a Malta. È considerata una sorta di Alcatraz nel Mediterraneo. Uno sputo d’isola che solo per malasorte capita d’incrociare, incastrato com’è tra due porte d’Italia, il Paese che è la via della salvezza verso l’Europa: la Sicilia 30 miglia a Nord e a una cinquantina di miglia a Sud-Ovest c’è Lampedusa. In mezzo c’è Malta. La malasorte. Chi arriva qui sa di non avere vie di fuga. Si rimane bloccati anche per dieci anni. Da queste parti la gestione dell’immigrazione è una cosa seria. E ha ragione il presidente del Consiglio Matteo Renzi a riferirsi a Malta, come ha fatto nei giorni scorsi in aula, descrivendolo come “il Paese più piccolo ma con un grande cuore, che ha avuto il coraggio di collaborare in modo molto serio”.

Le autorità maltesi sanno che da quest’isola non si scappa, non possono fingere di girarsi dall’altra parte e lasciar andare altrove i migranti nella speranza che non vengano fermati ai confini con gli altri Paesi. Da qui non partono barconi, non ci sono scafisti cui vendersi ritentando la sorte del mare. Se finisci a Malta il tuo viaggio è terminato. L’isola ha 400mila residenti e ospita 5mila immigrati, uno sforzo abnorme rispetto agli altri Paesi europei. Eppure qui non ci sono baraccopoli né problemi di sicurezza legati ai migranti. Le regole sono rigide: chi arriva senza documenti viene chiuso in uno dei detention centre, dove può rimanere in attesa di asilo politico fino a 18 mesi. Sono delle carceri. In particolare Hal Far Barracks e Hal Safi. Entrambi gestiti dal primo reggimento delle forze armate maltesi, sono zone militarizzate. I dormitori sono chiusi dietro due reticolati controllati a vista e pattugliati dall’esercito. Tra i casermoni decine di file di tende ospitano ciascuna fino a 20 migranti. Dentro ci sono due campi da calcio. Nient’altro.

Dal 2009 non entrano più neanche gli uomini di Medici Senza Frontiere. L’organizzazione, dopo aver mantenuto per anni un proprio presidio nelle strutture chiuse, le lasciò spiegando di non poter più svolgere la propria azione medico-umanitaria in maniera efficace. Msf ha inoltrato numerose richieste alle autorità maltesi affinché apportassero miglioramenti in termini di accoglienza nei centri di detenzione che “presentano condizioni inaccettabili: ambienti malsani e promiscui, spazi sovraffollati, vetri rotti, scarsità di letti e di beni di prima necessità, servizi igienico-sanitari inadeguati, sono le condizioni che fin da subito gli operatori di Msf hanno trovato nei centri di detenzione maltesi”. 

Alle spalle di Hal Far c’è un altro campo: Hal Far Hangar. È un agglomerato di container ordinati uno sull’altro che ospita oltre 1300 persone. Siamo riusciti a entrare attraverso un buco sulla rete da cui i migranti di giorno escono e la sera rientrano. In un piazzale centrale tra le lamiere c’è una struttura di cemento fatiscente che ospita i bagni e le cucine: otto fuochi a gas per tutti. Le docce sono una dozzina, tutte allagate e mal funzionanti. Condizioni igieniche ridotte allo zero. Ma da qui nessuno scappa. Il motivo lo spiega Abadil. Racconta di essere somalo e di avere 21 anni, gli ultimi cinque trascorsi qui all’Hangar. “Tre volte alla settimana dobbiamo metterci in fila davanti al nostro container per ricevere i cinque euro con cui dobbiamo vivere”. Se non sei all’appello “rimani senza soldi, ti tolgono il posto letto e se ti ritrovano ritorni nel carcere di là”.

Lui racconta di essere stato salvato in mare. “Stavamo andando in Italia, ero con i miei genitori e due sorelle: non le ho mai riviste e spero siano lì da voi”. A Malta ha imparato l’inglese, Abadil. E spera di poter ripartire. “Ma è impossibile: no way out”.

C’è chi riesce a salvarsi nelle acque maltesi e si ritrova in Italia. Nel 2014 è capitato a 3000 persone aiutate dalla Ong Moas (Migrant Offshore Aid Station – postazione di aiuto in mare ai migranti). La loro nave, la Phoenix, fa base a Malta e in questi giorni si sta preparando alla prossima missione che partirà il due maggio. 

Quest’anno con loro a bordo ci saranno anche uomini di Medici Senza Frontiere. “Avremo due dottori e un loro infermiere con noi”, spiega Marco Caucci, un ex comandante della marina maltese oggi direttore delle operazioni di salvataggio del Moas. “L’anno scorso abbiamo agito nel periodo in cui c’era l’allerta Ebola; ogni volta che ci trovavamo di fronte a un barcone prima di farli salire misuravamo a distanza con il laser la temperatura corporea di tutti, chi aveva anche solo un accenno di febbre veniva messo in un’altra zona della Phoenix fino all’arrivo a terra, quest’anno con Msf potremo intervenire subito”. Senza Mare Nostrum sarà più difficile intervenire, dice, “ma possiamo farlo comunque perché la legge del mare obbliga tutti ad aiutare chi è in pericolo”. Di previsioni “non voglio farne: l’anno scorso in 60 giorni abbiamo salvato tremila persone, quest’anno staremo in mare per sei mesi”.

Gli aiuti non sempre bastano. Appena una settimana fa si è registrata l’ultima tragedia nel canale di Sicilia: 850 dispersi, 28 superstiti e 24 cadaveri recuperati. E anche in questo caso Malta s’è mostrata accogliente. Ha ricevuto le 24 bare. Gli ha dato dei funerali e li ha seppelliti. Tra le proteste dei migranti accorsi alle esequie perché le autorità non hanno tentato di identificare i corpi.

“Siamo venuti a piangere i nostri fratelli e a dire che tutto questo è una vergogna: li seppelliscono con un numero, senza neanche tentare di dargli un nome, senza pensare ai genitori o ai figli che cercheranno per sempre questi 24 fratelli morti”, dice tra le lacrime Wedeb Desira. Racconta di essere sopravvissuta al mare e di essere arrivata qui a Malta con i soccorsi nell’agosto del 2012. Con lei c’è Harok Ghetu, eritreo 26enne arrivato tre anni fa a Malta. “Trattano i nostri fratelli come trattano noi: ci ignorano, non esistiamo per queste autorità”, afferma. Stringe i pugni e cerca gli sguardi dei compagni, il loro sostegno. Lo trova in Ahmednuur Idrahim. “Io sono arrivato dalla Somalia fin qui, ho viaggiato tre giorni e tre notti su una barca per scappare alla paura di morire e immaginando che in Europa ci fosse più civiltà, più attenzione alle persone: più rispetto; oggi so che non è così, forse ci preferirebbero tutti morti e annegati”. A Malta ci sono 133 tombe senza nome.

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