Il cinema può ancora inceppare il congegno, stravolgere lo status quo, “sfidare il racconto dei potenti”. Lo spiega il 78enne regista inglese Ken Loach in un appassionante ed intenso libricino edito da Lindau, scritto in collaborazione con il giornalista Frank Barat: Sfidare il racconto dei potenti. “Facciamo film per cercare di sovvertire, creare disordine e sollevare dubbi”, spiega il pluripremiato regista di capolavori come Ladybird, Ladybird e Piovono Pietre, nel primo capitolo di un istantaneo e ficcante pamphlet dove si fondono arte e vita, cinema e politica, senso di collettività nel lavoro e oppressione del capitale in ogni sua attuale forma neoliberista. “I tentativi artistici nascono inevitabilmente dalle nostre esperienze e dalle nostre percezioni, le quali costituiscono l’unico materiale di lavoro. E’ tutto ciò di cui disponiamo per creare. I problemi cominciano quando ci si mettono di mezzo gli affari, quando l’unico obiettivo diventa la produzione di merce per arrivare a un guadagno. A partire da quel momento la ricerca del profitto impone il contenuto e di conseguenza viene realizzato soltanto ciò che può essere sfruttato commercialmente”.

L’analisi di Loach sul sistema di creazione delle immagini al cinema, come in televisione, è lucido e spietato, un j’accuse che ricorda Indignatevi! di Stephan Hessel, con un unico obiettivo: rigore morale e chiarezza espositiva per ribaltare gli equilibri esistenti in cui ci sono e ci saranno sempre conflitti di classe tra sfruttatori e sfruttati. La storia che raccontiamo e filmiamo, spiega Loach, deve essere “un sassolino che produce tante onde (…) un microcosmo che illustra lo stato generale del mondo, mette in luce il funzionamento della società mostrandone derive e disuguaglianze”. E ancora: “Col tempo le cose non sono cambiate (…). La società è sempre stata basata sul conflitto, una classe contro l’altra. Chi sta al potere non vuole che il popolo combatta contro il suo vero nemico, la classe capitalista, quelli che hanno il controllo della grandi imprese, che dominano finanza e politica”.

Ecco allora arrivare il cinema, il cinema di Ken Loach – quasi una quarantina di film, tra fiction, documentari e corti in quarant’anni di lavoro – quell’utopica forma artistica che mira a cambiare “l’ordine delle cose”: “Affinchè un film sia realmente politico, nel senso di strumento, di mezzo politico, deve esserci coerenza tra la sua sensibilità e il suo contenuto (…) Il punto di vista e le opinioni non dettano i nostri film in modo diretto: li colorano, li guidano nella scelta dei soggetti e delle storie da raccontare”. Ne deriva così un vero e proprio vademecum comunitario e antitradizionale su come si prepara, produce e si gira un film alla Loach: intanto il “produttore deve capire il film, come sarà realizzato e crederci. Intellettualmente ma anche visceralmente”; poi bisogna costruire una “squadra”, “è fondamentale costruirne una compatta non circondarsi dei tecnici più talentuosi” dietro ai quali si sentirebbe molto l’aspetto di corporativismo, di lavoro perfetto ma fatto ognuno separato dall’altro, “meglio trovare persone che riescono a lavorare all’unisono, che sono capaci di condurre il film con un’unica voce”. Poi tocca alla macchina da presa che “non deve muoversi per anticipare ciò che sta per accadere, dato che non lo sa” e agli attori: “La credibilità è la nostra sola esigenza, cerco persone alle quali gli spettatori sono disposti a credere (…) cerchiamo attori con qualche fragilità, aperti, disponibili, generosi, non attori famosi perché in loro gli spettatori vedranno “prima la celebrità e solo dopo il personaggio”.

Un assunto così categorico e naturalistico che anche solo prendendo l’ultimo Jimmy’s hall sembra essere stato ottenuto con millimetrica precisione. Sfidare il racconto dei potenti è infine un libro in forma di autobiografia professionale che tocca fasi della carriera di Loach meno conosciute ma altrettanto cruciali per la forza politica della settima arte dal dopoguerra a oggi: la critica contro l’uso che si fa oggi della televisione per un artista che in tv iniziò con il lungo Cathy came home (1966) (“oggi i manager si intromettono in ogni ambito dal copione al casting e annullano ogni originalità del regista”); gli anni ottanta dell’era Thatcher in cui Loach venne ostracizzato, mal tollerato, costretto a girare documentari e infine censurato perfino dai distributori quando con il ritorno alla fiction de L’agenda nascosta (1990) – premio della giuria al Festival di Cannes – venne boicottato dalle singole sale del Regno Unito per aver raccontare la verità sugli omicidi di repubblicani irlandesi coperti dai servizi segreti inglesi. Infine trovano spazio nitide stoccate alle derive del laburismo e dalle socialdemocrazie odierne che non sono altro che destre moderate; prese di posizione ideologiche anticonsumistiche come l’uso della pellicola, soprattutto nel montaggio (“quando un montatore lavora in digitale per il regista che gli sta seduto accanto è difficile capire cosa stia facendo (…) montare in pellicola è un procedimento più lento che dà tempo di riflettere, è un ritmo più umano e agendo materialmente si agisce con più cautela”); e l’impostura ideologica della mecca del cinema, le produzioni hollywoodiane con star hollywoodiane con soggetti “buoni” ovvero un chiaro messaggio di rivendicazione: “Spesso si sente dire che per raggiungere il maggior numero possibile di persone ci vuole una star. Ma in tal caso non si tratta più dello stesso film. Nei discorsi sottesi a questo tipo di film esiste l’accettazione della gerarchia, della ricchezza estrema, del potere delle grandi imprese e di tutto quello che ne è connesso”.

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