Premessa indispensabile: non sono mai stato un fan di Oriana Fallaci. Anzi. Non l’amavo quando – semplifico – era considerata di sinistra, non l’ho amata quando è diventata un’icona della destra per le sue posizioni anti-islamiche. Mi ha sempre infastidito quella sua scrittura eccessiva, sopra le righe, che sfociava – spesso, a mio parere – nella retorica. Per cui mi sono accostato al biopic di Rai uno con molte perplessità, diciamo con il timore di incappare in una celebrazione acritica, in quello che i detrattori della fiction italiana chiamano il santino, già un po’ annunciato nella scelta di attribuire al personaggio il più bel viso del cinema italiano. Ma mi sono dovuto ricredere. Il prodotto non è affatto male. Mi sembra di poter dire che sui pericoli paventati ha avuto la meglio la presenza di due sceneggiatori molto esperti come Rulli e Petraglia e di un regista, Marco Turco, che  aveva già dimostrato una bella personalità nelle precedenti ricostruzioni biografiche televisive dedicate a Rino Gaetano e Franco Basaglia.

Si comincia subito bene, con una cornice, la solita cornice che introduce il flash-back immancabile nella fiction biografica nazionale ma che, questa volta, non è pretestuosa, anzi consente una ripresa finale di un certo interesse e non priva di pathos. Poi un racconto un po’ avventuroso, ma non banale, delle corrispondenze vietnamite, con riprese di buona qualità per ricostruire un universo infernale che ha già avuto rappresentazioni memorabili. Andando avanti, spazio alla vicenda amorosa narrata senza sentimentalismi e senza perdere di vista il contesto politico, il clima cupo e violento della dittatura dei colonnelli in Grecia, un pezzo di storia di cui nessuno parla più. Infine le contrapposizione al mondo islamico, alla teocrazia iraniana e al terrorismo, a cui la versione cinematografica, uscita in alcune sale un paio di settimane prima della messa in onda della più ampia versione televisiva, lasciava uno spazio limitato, gettando subito in inutile allarme la stampa di destra. Insomma, la fiction si muove con attenzione ed equilibrio tra i vari piani, i vari temi e i vari generi: biografia, storia politica e bellica con qualche accenno un po’ superficiale al newspaper movie.

Ovviamente di tutto questo si può discutere e giudicare il lavoro in modo diverso, sottolineandone i limiti e gli squilibri, invece dei pregi e dell’equilibrio che io ho riscontrato. Quello che è partito sulla rete, invece, è il solito teatrino: i soliti nemici giurati della fiction nazionale che cominciano a twittare sui titoli di testa, amici e parenti dell’Oriana pronti a giurare che lei non si sarebbe riconosciuta in questo ritratto e si sarebbe lanciata in una delle sue celebri invettive. Mi pare di capire che gli accenti più critici, quasi indignati, nei confronti della fiction siano venuti dai giornalisti, in particolare dalle giornaliste che vi hanno visto una rappresentazione sommaria, improbabile del loro lavoro più delicato e complesso, quello degli inviati di guerra.

Ma anche questo è un copione già visto. Non c’è categoria professionale o generazionale che non si sia ribellata di fronte alla rappresentazione cinematografica della sua identità, replicando: non è vero, è una vergogna, non si può costruire un’immagine così fasulla della nostra vita. E’ andata così per le Commesse di una bella serie Rai, per I laureati un po’ attempatelli di Pieraccioni e persino per le mondine di Giuseppe De Santis in quel capolavoro che era Riso amaro.

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