Non voglio la pietà di chi si convinca da quanto sto per dire che è stato impiccato un innocente. Parlo senza scopo alcuno. Ed è una verità che non ha nulla a che fare con la giustizia. Tutta la questione era, prima ancora che la magistratura la esaminasse e dopo che ebbe emesso la sua sentenza, fuori dalla mia portata nonché dalla mia logica, perciò mi sono imposto di tacere, sempre, come sapete.”

Ghassan Kanafani è stato, probabilmente, lo scrittore più importante tra i rappresentanti di quel gruppo di palestinesi che dall’esilio (in arabo Ghurba) hanno contribuito a lottare per la causa del loro popolo tramite le loro opere artistiche. Fu assassinato nel 1972 a Beirut in un attentato in cui perse la vita anche una sua nipote sedicenne. All’epoca della sua morte, Kanafani, era portavoce del Fronte Popolare di Liberazione della Palestina, e l’attentato, si dice, fu ordinato dal Mossad per vendicare il Massacro dell’Aeroporto di Lod, attacco attribuito al suo gruppo politico e all’Armata Rossa Giapponese.

L_ALTRA_COSA_1Tra le sue opere tradotte in Italia spicca il romanzo breve L’altra cosa (Chi ha ucciso Layla Al-Hayk?) (traduzione di Federica Pistono e pubblicato da Cicorivolta edizioni), apparentemente una storia poliziesca, in realtà una puntuale e bella metafora per raccontare alcuni tra le tematiche fondamentali della vita: l’amore, il tradimento, la giustizia. La trama è molto semplice e lineare: in un imprecisato paese mediorientale, negli anni Sessanta, un avvocato è accusato dell’’omicidio di una donna. Durante il processo si chiude in un inspiegabile silenzio, rifiutando di difendersi. Riconosciuto colpevole, viene condannato a morte. Prima dell’esecuzione scrive alla moglie un memoriale in cui racconta la sua verità sul delitto.

Attraverso la vicenda raccontata dal protagonista emergono problematiche filosofiche e psicologiche che ci riportano alla concezione della vita di Kanafani. Come scritto dalla traduttrice, Federica Pistono: “Kanafani vede l’’uomo, per quanto forte e intelligente, in balia degli eventi, dei “gran giochi del caso e della sorte” che possono annientarlo in qualunque momento. Pensiamo, per esempio, ai tre protagonisti di Uomini sotto il sole, che muoiono in modo atroce per il concatenarsi di una serie infernale di circostanze, o ai protagonisti palestinesi di Ritorno a Haifa, che perdono il figlio per una serie di circostanze casuali. Contrariamente ad altre opere dell’’autore, l’’ambientazione di questo romanzo è estremamente neutra: l’’azione si svolge in una imprecisata città mediorientale, probabilmente Beirut, come possiamo dedurre dagli scarni riferimenti al mare e ai grattacieli.”

Sempre per Cicorivolta Edizioni sono uscite le due opere teatrali Il cappello e il profeta e Ponte per l’eternità (entrambi pubblicati da Marco Criscuolo), il primo uscì solo un anno dopo la morte dell’autore ed è uno straordinario esempio di come, Kanafani, nonostante le privazioni che l’esilio gli ha dato, riesca a far emergere nelle sue parole una carica positiva, una sorta di speranza mai sopita che un giorno il popolo palestinese possa riavere la sua patria perduta. In un’aula di tribunale, dove si alternano luce e buio, (innocenza e colpevolezza), due giudici, o quantomeno presunti tali, vogliono condannare a ogni costo il protagonista. Attenzione però: le sbarre in ferro, che dividono il loro tavolo da quello del malcapitato, sono mobili; possono, cioè, spostarsi e andare a ingabbiare i giudici stessi, dimostrando implicitamente la loro nuda responsabilità per una parte delle colpe contestate. Coprotagonista di questo godibile pezzo teatrale, è una misteriosa Cosa, dall’aspetto alieno e dalla voce inumana, caduta dallo Spazio e proprio sul balcone dell’imputato. Questa Cosa, fragile e minuziosa nei suoi dettagli, è portatrice di un messaggio, in apparenza strano e incredibile, ma pure tanto semplice quanto concreto.

Ponte per l’eternità è un testo scritto per una rappresentazione radiofonica di eccezionale simbolismo e oggettivismo insieme, che tuttavia Kanafani non fece mai andare in onda e di cui non si conosce l’esatta data di stesura. L’opera alterna momenti di pacata e umana ironia con momenti di veemenza esagitata e di violento realismo. Si tratta di una metafora, oltremodo chiara visibile, in cui quel senso tragico di Palestina va di pari passo con un altro concetto di analogo e sottile valore, quello di morte, a cui è sottoposto il protagonista Fares, un profugo uscito da chissà quale campo palestinese, il quale viene investito dall’automobile di Raja’, una ragazza benestante, ma ignara dei giochi e delle similitudini del destino. Attraverso una storia fatta di dialoghi coinvolgenti e di rapida scorrevolezza, Fares descrive a Raja’ tutto l’orrore della sua personale (e tremendamente universale) vicenda, portandola, quasi senza che lei se ne accorga, (il tutto supportato da una mirabile freschezza linguistica), a prendere viva coscienza del peso insopportabile e oscuro della propria situazione. Entrerà così in scena l’amore, unico valido espediente, ad aprire gli occhi di Raja’ e a salvare Fares da una condanna infame, che oltretutto sarebbe stato costretto a subire lontano da lei, dalla sua comprensione e, si potrebbe dire, lontano dagli occhi del mondo intero.

La prossima notte, quando lo Spettro si presenterà… tu sputagli in faccia e dagli dell’impostore… impostore… impostore…”.

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