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Lutto e marketing: l’allegro funerale

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Metropolitana di Milano: in piedi nella calca si leggono le pubblicità. Mi colpisce l’immagine di una cicala e l’esortazione: “Vivi da cicala, tanto c’è l ‘Outlet dei funerali’; 1.499 euro tutto compreso”. Insomma, spendi tutto, o al massimo lascia questa piccola somma per gli eredi e muori soddisfatto.

Il termine outlet è geniale, dà già l’idea del grande affare, effettivamente il prezzo è conveniente, tutto compreso, ed evita quelle scene penose del parente, magari figlio o moglie, a cui vengono proposte bare che costano quanto automobili di piccola cilindrata dalle classiche agenzie funebri, quelle che sanno prima di te che sei morto, e guardano il parente affranto con una espressione leggermente disgustata e colpevolizzante se uno timidamente dice: per me è troppo cara. In un film di Verdone ho rivisto la grottesca, macabra trattativa e ho riso un po’ verde; non era troppo lontano dalla realtà. Per inciso, spesso le bare arrivano dalle foreste indonesiane e consentono ottimi guadagni.

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Mi chiedo se, come in ogni outlet, ci siano dei periodi in cui i saldi sono più convenienti, in maniera tale che il cliente si possa organizzare per finire i soldi al momento giusto, o decidere di sopravvivere finché morire non è un affarone. Oppure potrebbe essere congelato e portato all’agenzia quando i prezzi calano.

Del resto un tradizionalista geniale, Guido Ceronetti, scrive nel suo ultimo libro L’occhio del barbagianni che i funerali di oggi sono frettolosi, è scomparsa la ritualità complessa che aiutava i parenti e forse il morto nel suo passaggio nel mistero: “affrettati, ridotti al minimo, paternoster da telefonino, abolita la veglia, una corsa dal frigorifero al cimitero”.

Il frigorifero della cicala, che pensa solo a sé. Sia chiaro: la formica della favola è piuttosto antipatica, saccente, invidiosa e vendicativa, ma non esageriamo col consumismo funebre. Forse Ceronetti ha letto il messaggio sulla metro. Non credo, ma con le antenne dell’artista è come se lo avesse fatto. Accanto, proprio accanto, nello stesso vagone, un’altra agenzia si rivolgeva ad altri clienti, ma di un target assai differente: gli ecologisti puri, a cui veniva assicurata una bara in legno naturale, senza alcuna vernice chimica. Questo faceva morire l’ecologista più sereno, non ne dubito, e lo rassicurava dell’impatto zero su Gaia, il nome della terra come dea nella mitologia greca. E così si parla di Gaia funeral, l’intenzione è buona ma l’effetto un po’ stridente, paradosso cercato ma non tanto riuscito. Devo dire che non ho visto nessuno appuntarsi i numeri di telefono e quando sono riemerso alla luce dall’Ade metropolitana, ho ricordato la fiera bellezza dei funerali indiani, la cura del passaggio dei tibetani, il persistere soprattutto al sud di tradizioni che aiutano i parenti del defunto, magari portando il cibo per giorni.

E mi è venuto in mente Matteo, un novantenne che viveva in un’isoletta croata priva di alberi, Uniye in cui in molte soffitte si teneva una bara, viste le difficoltà di approvvigionamento. I proprietari erano giovani e Matteo, loro amico, chiese se gli potevano vendere la bara.

I ragazzi volevano regalargliela ma bisognava essere sicuri che andasse bene: Matteo era piuttosto alto. Una sera venne a provarla, ci si distese a braccia incrociate. Gli stava benissimo, convenimmo tutti che era perfetta e di notte attraversammo il paese trasportando a spalla la bara vuota, mentre Matteo la seguiva. Morì due anni dopo.

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