C’è un che di culturalmente regressivo nell’operazione con la quale si è inaugurato ieri un nuovo filone della recente moda di diffondere attraverso il cinema occasioni culturali non direttamente legate al cinema. Con Musei vaticani 3D, il film prodotto da Sky che è andato in sala per un solo giorno, il 4 novembre per l’appunto, si è infatti invertita la rotta seguita da qualche tempo con la proiezione nei cinema delle opere liriche riprese dai migliori teatri del mondo. Difatti nel caso della lirica l’operazione è meritoria: l’evento è laggiù – per esempio al Metropolitan o al Covent Garden – esiste già di per sé in quella stessa forma (più o meno) che vediamo poi ripresa al cinema. E il cinema si limita (più o meno) ad allargare la platea proponendo al suo pubblico spettacoli carichi di suggestioni, di musica, di storia. L’integrità dell’oggetto artistico è in qualche modo preservata.

Nel caso di Musei vaticani 3D, invece, non c’è un oggetto preesistente: o meglio l’oggetto c’è, e sono i musei. Ma l’operazione che si fa è quella di creare un nuovo oggetto, una specie di documentario old style in cui la materia culturale è macdonaldizzata e predigerita da un esperto. Che poi questo esperto sia, come in questo caso, un vero signore della storia dell’arte come Antonio Paolucci poco importa. Ciò che importa è che l’unico elemento di novità, rispetto ai vecchi documentari, è costituito dal 3D: ma questo elemento serve in questo caso una pessima causa.

Il 3D fa spettacolo, serve a fare dei Musei vaticani un immenso set da cinema fantastico, invece di aiutare, come si sarebbe potuto fare, a entrare soprattutto nella tattilità della scultura, nel mistero di marmi che suggeriscono potenza e sinuosità, leggerezza e forza. Com’è che la scultura ottiene questi effetti? Il film non ce lo spiega.

Anziché costruire percorsi nella storia e nella tecnica della scultura e dell’architettura si è preferito puntare tutto sulla sensazione: c’è una musica invadente che commenta le Stanze vaticane di Raffaello e la Sistina di Michelangelo, ci sono accostamenti a dir poco azzardati (Giotto e Caravaggio, ad esempio, senza adeguate e sufficienti contestualizzazioni), c’è, soprattutto, un uso incongruo della tecnologia 3D che fa sì che si “entri” nel Giudizio universale per farne un’opera disposta su più piani in profondità. L’impressione che se ne ricava è simile a quella delle calcomanie applicate dai bambini in sovrapposizioni multiple su sfondi neutri. Eppure esempi virtuosi di cinema sull’arte non mancano: basterebbe pensare a un classico come Le mystère Picasso di Henri-Georges Clouzot.

Dal film passa insomma l’idea che l’arte sia in fin dei conti qualcosa di bello senza troppa pena. Salvatore Settis scriveva tempo fa che le mostre sono fatte per non far pensare, ma per stupire. Per questo godono di tanta fortuna. Ora, ciò che operazioni come Musei vaticani 3D rischiano di produrre è un effetto di eccessiva semplificazione del rapporto con l’arte: che è un rapporto vivo nella misura in cui coinvolge l’opera e lo spettatore in un “corpo a corpo” diretto.

Qui invece non c’è più nemmeno bisogno di andare a Roma per incontrare l’opera, tutto viene offerto facilmente all’occhio; e non c’è più nemmeno bisogno di ricercare, anche con fatica, quel rapporto di intelligenza dell’opera che ci fa stare a volte decine di minuti davanti a un quadro o un manufatto. No, tutto si riduce a uno sguardo a volo d’uccello.

Musei vaticani 3D sarà seguito nei prossimi mesi da un programma di proiezioni al cinema di “visite” a importanti musei per “conoscere” in un’oretta pittori come Matisse o Rembrandt. Ma con simili operazioni di riduzione dello sguardo non si rischia di giapponesizzare il rapporto con le radici dell’arte?

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