Compagnoni e Lacedelli, un binomio che dice qualcosa un po’ a tutti, dice tanto agli appassionati di alpinismo e dice tantissimo a chi sa che alpinismo e storia spesso si incontrano in cima a una montagna. Era il 31 luglio del 1954 quando i due alpinisti della spedizione italiana sul K2 piantarono la bandiera tricolore sulla seconda vetta più alta del mondo, a quota 8611 metri. Furono loro a concretizzare un lavoro di squadra che a distanza di 60 anni inorgoglisce ancora gli intrepidi della montagna.

Per provare a descrivere con i termini di allora la percezione che si ebbe in Italia dell’impresa cui i due legarono indissolubilmente il loro nome basta riportare fedelmente la motivazione, valida per entrambi, della Medaglia d’Oro al valor civile che gli fu tributata nel 1955: “Tempra eccezionale di alpinista, dopo aver profuso, durante la spedizione italiana al Karakorum-K2 nel 1954, le sue forze nella durissima scalata dello sperone Abruzzi del K2, e predisposto l’attacco finale, si slanciava con mirabile ardimento e sprezzo del pericolo, alla conquista della vetta inviolata. Superati i rischi e sacrifici di ogni sorta, pur avendo esaurito le riserve di ossigeno, traeva ancora dalle altissime qualità del suo forte animo l’energia sufficiente per giungere a piantare sulla seconda cima del mondo il tricolore d’Italia. Luminoso esempio delle più alte virtù di nostra gente. Karakorum – K2, 1954″. Achille Compagnoni, classe 1914 era di Santa Caterina Valfurva, Lino Lacedelli, undici anni più giovane, di Cortina d’Ampezzo. Il destino li ha riuniti nel 2009, l’anno della loro scomparsa, l’uno a pochi mesi di distanza dall’altro sono arrivati molto oltre quegli 8611 metri. Hanno condiviso l’ultima scalata quasi in un’ultima cordata.

La cordata del 1954, invece, quella che domò il gigante del Karakorum era composta da 30 elementi e oltre ai due già noti, fra gli alpinisti c’erano: Erich Abram, Ugo Angelino, Mario Fantin, fotografo e cineoperatore, Cirillo Floreanini, disegnatore, l’ingegnere Pino Gallotti, Guido Pagani, medico, la guida alpina Mario Puchoz (deceduto per edema polmonare nelle prime fasi della spedizione). Ubaldo Rey, guida alpina come Sergio Viotto che era anche falegname. Gino Soldà, 47 anni, era il più anziano del gruppo mentre Walter Bonatti con i suoi 23 anni era il più giovane ma il suo contributo fu fondamentale quando con Amir Mahdi (uno dei dieci portatori d’alta quota al seguito della spedizione) affrontarono il rischio della morte in un forzato bivacco notturno a oltre 8100 metri, pur di portare a Compagnoni e a Lacedelli le bombole d’ossigeno rivelatesi poi essenziali al compimento della missione. Mancano i 5 ricercatori: il paleontologo Paolo Graziosi, Antonio Marussi che era un geofisico, Bruno Zanettin, petrografo, Francesco Lombardi, geodeta e topografo. Infine, il geologo che era soprattutto il capo spedizione, Ardito Desio. Riuscirono in un’impresa che la montagna aveva negato a tanti, ad esempio a Luigi Amedeo duca degli Abruzzi, grande alpinista che tentò la scalata nel 1909. Il duca diede comunque il nome alla via che la spedizione del 1954 seguì che è lo Sperone degli Abruzzi, sul versante pakistano del K2 che segue la cresta sudest. Ciascuno di loro ha una grande storia e le vicende che seguirono all’impresa diventarono un caso che ha fatto discutere per decenni, i protagonisti di quel 31 luglio non ci sono più ma rivivono ogni volta che il K2 viene sfidato. E’ successo proprio qualche giorno fa, quando una nuova spedizione italo-pachistana supportata dall’associazione EvK2Cnr, ha raggiunto gli 8611 metri della vetta hymalaiana.

Coraggio, incoscienza, avventura ma anche scienza, conoscenza e soprattutto passione e rispetto per la montagna. Sfidare le vette è uomo contro natura, come avviene con chi affronta il mare e l’aria, l’imprevisto, la morte è già stata messa in conto. Tanti alpinisti non arrivano in cima e non tornano più indietro quando “la montagna chiama”. E’ una missione che io provo a comprendere, scrivendo righe ammirate e colme di fascinazione per chi la montagna la vive fino all’ultimo. Ma sono in riva al mare, lontano nel tempo e nello spazio da quell’impresa di cui però riesco a sentire l’eco giungermi nitido, nonostante la voce sia partita sessant’anni fa e da 8611 metri sopra il mio cielo.

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