Lo sconosciuto con il cappotto logoro si guardò intorno e si avviò verso la recinzione che correva lungo il ciglio della scarpata, mentre l’ombra si muoveva nella stessa direzione. Era come se entrambi sapessero, come se si aspettassero a vicenda da molto tempo.

È l’autunno del 1990 e la cortina di ferro si sta sbriciolando. A Stoccolma, ai piedi della terrazza di Ersta, viene trovato il corpo di un uomo che porta con sé un passaporto albanese, ma le autorità del suo paese sostengono che non esiste nessuno con quel nome. Il caso viene rapidamente archiviato come suicidio, una soluzione affrettata che sollecita la curiosità di un giornalista a caccia di inchieste. Dopo una serie di insuccessi privati e lavorativi, Tobias Meijtens fiuta finalmente il pezzo che potrebbe fargli fare il grande salto e garantirgli un posto fisso al quotidiano per cui lavora. Tanto più che, poco tempo dopo, anche l’unico potenziale testimone dei fatti di Ersta muore in circostanze molto sospette. Indagando in coppia con la collega Natalie, Meijtens si trova tra le mani un caso di spionaggio che risale a molti anni prima. Anni in cui l’utile immagine della Svezia era quella di un paese giusto e neutrale. Era davvero così? Chi era l’uomo precipitato a Ersta? Alcuni indizi conducono a un nome in codice: Tristano, un nome dietro il quale sembra nascondersi una grande menzogna.

Pubblicato da un piccolo editore, L’inganno del passato, il romanzo di Magnus Montelius, è stato in Svezia la sorpresa della stagione letteraria: una complessa storia di spionaggio che ha le sue radici nella guerra fredda e scava nelle ragioni della scelta estrema di un gruppo di persone unite un tempo da ideologie radicali e da un legame profondo. In Italia è stato pubblicato da Marsilio Editori (traduzione di Laura Cangemi), un ottimo esordio per questo scrittore, cresciuto in un ambiente diplomatico svedese legato all’Unione Sovietica e che ha lavorato come consulente per l’ambiente nei Balcani e nelle vecchie repubbliche sovietiche. Dopo aver vissuto in Africa e America Latina, Montelius è tornato (per ora) a Stoccolma.

Poi naturalmente, c’erano le botte, il pericolo dei cani, gli infortuni e la possibilità che qualcuno che non era ancora stato preso avesse colto l’occasione per fare qualche colpo. Se sentivamo le sirene, mollavamo tutto e correvamo nel seminterrato di Giuseppe, dove si trovava sempre qualcos’altro di divertente per passare la serata. E intendo dire qualsiasi cosa, dal mai tramontato sport di lanciarsi addosso oggetti pesanti fino a quando non si spegnevano le luci agli incontri di boxe dove ce le davamo fino ad ammazzarci, alla nostra originalissima interpretazione del gioco delle freccette (una sorta di moscacieca o “attacca la coda all’asino”, ovviamente con l’elemento casualità).

Il quartiere di Astoria, nel Queens. Le lotte fra bande, gli scontri fra etnie, i piccoli lavoretti per criminali greci e italiani, la violenza, i gesti folli che portano a morti tragiche e poi il successo, i soldi, il sogno, il mondo al di fuori del quartiere.

Guida per riconoscere i tuoi santi, di Dito Montiel (Pubblicato in Italia da Edizioni Clichy, traduzione di Nicola Manuppelli) è un memoir pieno di quella fame di esperienza tipicamente americana, in cui Kerouac si mischia alla Febbre del sabato sera. Passando da Astoria al Lower East side e Manhattan, ai primi lavori come modello di biancheria intima per Calvin Klein, alla scena hardcore punk, ai quindici minuti di celebrità con un contratto da un milione di dollari per un gruppo che si scioglierà subito dopo. E poi l’alcol, le droghe, i bordelli, ma anche gli amici veri, le ragazze, gli amori e i momenti che ti cambiano la vita. In uno stile crudo, scarno e allo stesso tempo lirico, che è stato ben restituito dalla versione cinematografica di questo libro, Guida per riconoscere i tuoi santi, con protagonisti Robert Downey Jr. e Rosario Dawson, girata dallo stesso Montiel nel 2006 e premiata per regia e cast al Sundance Film Festival. Con la nostalgia e il piglio vivace del sopravvissuto Dito racconta la propria infanzia difficile, la giovinezza avventurosa nelle strade dell’adorata New York e i “santi imperfetti” (il padre di Dito, Antonio, Bob, Allen Ginsberg, il fotografo Bruce Weber e la protetta di Warhol Cherry Vanilla) che lo hanno instradato alla vita, dicendogli: “Ricordati, Dito, nella vita devi essere pazzo“.

E sempre dalla “scuderia” di Edizioni Clichy è uscita una nuova interessantissima collana: Sorbonne. Le grandi idee del Novecento in piccoli libri che concentrano l’essenza del pensiero di persone che hanno immaginato altri mondi e prospettive diverse. Ampliando, innovando, spesso ribaltando, le conoscenze o i punti di vista dei contemporanei e delle generazioni successive. Le parole, le derive, i percorsi, le frenate, la corsa. Una prefazione che fa da inquadramento “sentimentale”, nel quale il curatore racconta il mondo del protagonista e in che modo il suo pensiero lo ha toccato e coinvolto, dopo aver cambiato la cultura, la società, la storia. E poi le immagini, le parole e il pensiero, senza mediazioni né fratture, dei grandi rivoluzionari del Novecento. Nella politica, nell’arte, nella letteratura, nel teatro, nel cinema, nell’architettura, nella scienza, nella filosofia. Per ora sono usciti i volumi dedicati a Francis Bacon (a cura di Matthew Spender), Pablo Picasso (a cura di Marco Fagioli), Pier Paolo Pasolini (a cura di Pippo Delbono), Enrico Berlinguer (a cura di Tommaso Gurrieri) e Sandro Pertini (a cura di Franco Cazzola).

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