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Grandi opere? No: il rammendo del Paese

Grandi opere? No: il rammendo del Paese
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Rammendare significa accomodare un tessuto logoro, con fili passati a intreccio. Voglio dunque chiedervi una cortesia. Lungo questo esercizio semplice e, spero, chiarificatore.

Provate a chiudere gli occhi, e ripercorrere la strada che avete fatto oggi, o ieri, insomma in uno degli ultimi giorni. Per andare al lavoro. A prendere vostro figlio a scuola. A far visita ad un amico malato in ospedale. A fare la spesa o in un ufficio postale per pagare un qualche bollettino.

Ad occhi chiusi, ripercorrendo come un gambero il tempo all’indietro, guardatevi intorno. Sarete sicuramente inciampati, almeno una decina di volte, in spazi, edifici, marciapiedi, piazze, cose mezzo scassate, logore, in una parola da rammendare.

Quei luoghi, o quei servizi, sono senz’altro le scuole e i centri sociali del paese. Le piazze e le panchine. Una biblioteca o un ufficio pubblico. La sede municipale. L’impianto sportivo, perfino il cimitero. Ma anche l’argine compromesso. Il capannone in disuso. L’area industriale abbandonata.

Luoghi con la ruggine dentro. Capaci di condizionare, in negativo, nientemeno che la nostra qualità della vita. Il nostro essere cittadini e comunità.

Ora aprite gli occhi, e cominciate ad immaginare. Immaginate una classe dirigente in grado di cogliere la semplicità di un’idea chiara come l’acqua. Rammendare il Paese, piuttosto che sacrificarlo sotto il peso insopportabile di ciclopiche quanto inutili grandi opere, sarebbe un modo (il modo) per cambiare direzione. Cambiare verso, come si usa dire…

Un modo molto meno oneroso, molto più capace di distribuire capillarmente sviluppo e occupazione. Non c’è comune in Italia che non abbia almeno una scuola, o un ospedale, o una piazza, da rifare. Sistemare. Aggiustare. Rammendare.

Tenete aperti gli occhi, mentre ascoltate le solite vecchie, sterili, obiezioni. E sappiate trovare le parole adatte per rispondere agli attacchi della demagogia e di un pensiero unico per asfissia ed arroganza. Perché questo non sarebbe affatto un programma di retroguardia, rammendare il Paese. Ma un processo fatto di fili che si intrecciano nei territori, che porta sicurezza e benessere. Sostenibilità e concretezza. E comunità partecipate in grado di capovolgere i meccanismi contorti della dottrina neoliberista: produrre per consumare, costruendo il proprio successo sui fallimenti altrui.

Non la pensa così Tomaso Montanari, che nel suo ultimo libro “Istruzioni per l’uso del futuro” ci esorta a comprendere che: “La vera sfida è dimostrare con i fatti che lo Stato esiste ancora. Non lo Stato persona giuridica astratta: lo Stato comunità, la collettività. Noi tutti. Dobbiamo dimostrare di saper fare il nostro stesso, vero interesse: l’interesse di tutti, l’interesse pubblico”.

Rammendare significa accomodare un tessuto logoro, con fili passati a intreccio. Ad occhi chiusi, dunque, guardiamoci intorno. Ad occhi aperti, immaginiamo il cambiamento da adottare.

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