“Ultima offerta, forza forza, diciannovemilioniequattrocentomila euro. Fatevi avanti, signori: la robba è buona”. Benvenuti al mercato della Serie A, dove si vendono gioielli rifiniti e si acquistano pietre grezze. Ciro Immobile, 24 anni e due gol in meno con la maglia del Torino, è solo l’ultimo diamantino che il nostro campionato si è sfilato dal dito. Terzo capocannoniere di fila, dopo Zlatan Ibrahimovic ed Edinson Cavani, a lasciare l’Italia per altri e più competitivi lidi. Immobile è l’ennesima certificazione, la nostra presa di coscienza: siamo un passo indietro rispetto alle big d’Europa per risultati, forza economica e soprattutto appeal.

E siamo forse anche un po’ ciechi perché se davanti ai pacchi di milioni arabi non si poteva dire no alle vendite di Ibra e Cavani, quella di Immobile – soprattutto vista dalla sponda bianconera di Torino – è una cessione probabilmente dettata più da motivi tattici che finanziari, portando in dote poco meno di 10 milioni che sono tanti soldi sì ma non stravolgono i conti di casa Agnelli. Ma questo è solo un inciso.

La questione vera è un’altra. Il percorso inverso attraverso le Alpi, fino ai primi anni del 2000, lo facevano Zidane (dal Bordeaux, 1996, a 24 anni), Ronaldo (dal Barcellona, 1997, 21) fino a Kakà (dal San Paolo, 2003, 21): talenti pronti alla consacrazione o campioni già fatti strappati alla concorrenza a suon di miliardi di vecchie lire e grazie alla prospettiva di giocare nel centro gravitazionale del calcio europeo. Negli ultimi due anni sono partiti Marco Verratti e Ciro Immobile, sbocciati a Pescara all’ombra di Zeman. Il centrocampista ha salutato per 12 milioni senza che nessuna squadra italiana si fosse davvero fatta avanti, eppure le sue giocate avevano già la lucentezza cristallina del campione anche se sfoggiate in serie B. Oggi il bomber del Torino, cresciuto dalla Juventus che però non l’ha mai richiamato a casa dopo averlo svezzato, se ne va in Germania con lo scettro di capocannoniere in mano. Nel primo non ci ha creduto nessuno; nell’attaccante non ci hanno creduto i bianconeri, gli unici a poterlo trattenere ingolosendolo con il profumo dell’Europa che conta e che si addice a uno che ha infilato 22 goal in tutti i modi e in tutte le maniere. Mancano i soldi? Vero. Ma questo è storicamente capitato un po’ ovunque. E proprio la destinazione di Immobile, Dortmund, chiude il cerchio: dov’era la Germania quindici anni fa?

Nel ’98 gli uomini di Vogts abbandonarono il mondiale con un umiliante 3-0 rimediato dalla Croazia nei quarti di finale aprendo la crisi del calcio tedesco, manifesta più che mai a Euro 2000 (zero vittorie e un gol fatto) e in Portogallo quattro anni dopo (2 punti in 3 partite). In mezzo il quasi-miracolo nei Mondiali 2002 e la Champions vinta dal Bayern nel 2000/01, con in campo però appena quattro tedeschi (Kahn, Linke, Effenberg e Scholl: tutti over 30). Tra la finale del Bayer Leverkusen nel 2002 e la sconfitta di Madrid del Bayern Monaco nel 2010, il calcio tedesco è scomparso dal radar. Ma sottotraccia stava rinascendo, ricalibrando equilibri e priorità. Ha saputo rigenerarsi e modellare il suo business in maniera differente. Il paradigma di tutto questo è proprio il Borussia Dortmund, quasi fallito e rifatto in casa (due terzi della rosa sono ‘indigeni’) con vagonate di gioventù (età media 25 anni). Lo smottamento dell’Italia post-Germania 2006, eccezion fatta per le Champions 2007 (Milan) e 2010 (Inter) vinte però con gruppi ormai al tramonto della loro forza, è evidente. Può succedere. Esistono però medicine, investimenti e cambi di prospettiva. Ma all’orizzonte non se ne vedono.

Immobile, come funziona a Dortmund? Guarda e riferisci. Ammesso che ci sia qualcuno disposto ad ascoltare.   

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