A cena con Roberto Mancini proprio no. L’aveva detto alla vigilia del ritorno degli ottavi di Champions League, José Mourinho, declinando l’invito del tecnico del Galatasaray, suo predecessore sulla panchina dell’Inter. Convinto probabilmente – come sempre – che sarebbe stato sazio già al termine dei 90 minuti, nonostante il pareggio dell’andata fosse un risultato ballerino. Dopo quattro minuti dal fischio d’inizio di Chelsea-Galatasaray il primo era già pronto, poi il secondo e il dolce triplice fischio finale. Due a zero: Blues qualificati per i quarti, Mancini di nuovo a casa senza entrare nelle prime otto d’Europa. L’uomo del Triplete nerazzurro che strapazza l’allenatore dei tre scudetti ma delle magre figure in Europa. E’ una storia già vista: il tecnico portoghese alza la tensione prima delle sfide importanti, soprattutto quando di fronte si ritrova i suoi nemici preferiti.

Da Wenger a Mancini, passando per Benitez, ci sono cascati tutti. L’unico con il quale – nonostante affondi pesanti – si poteva far qualcosa insieme era Sir Alex Ferguson. Celebri divennero le bottiglie di buon vino stappate nei dopo gara quando lo Special One si trasferì per la prima volta sulla panchina dei Blues. “Ora non saprei proprio con chi dividere il mio vino”, disse Ferguson dopo l’addio di Mourinho all’Inghilterra. Era il 2008 e lo Special One si apprestava a sbarcare a Milano, terra del “non sono un pirla” e il più grande banco di prova della sua carriera. Mancini aveva fallito in Champions per tre anni di fila, dalla baraonda di Valencia all’eliminazione per mano del Liverpool. Mourinho riesce a portare l’Inter sul tetto d’Europa al secondo tentativo “con una squadra che avevo costruito io”, ha precisato Mancini prima dell’ultimo incrocio, salvo poi smentire.

L’ennesimo colpetto al rivale portoghese, uno con il quale il Mancio non può che metterla sulla tenzone. Entrambi allenatori stranieri capaci di vincere la Premier, con Mourinho così rapace da toccare i 95 punti perdendo una sola partita nell’anno del primo acuto. Entrambi passati con sogni di gloria sulla panchina più maledetta e affascinante d’Italia, quella dell’Inter. E il nodo gordiano tra i due, quello per cui a cena insieme non si potrà mai andare, è in fondo tutto lì: il finale ben diverso del matrimonio con l’Inter. Mancini uscito di fatto dopo l’eliminazione contro il Liverpool, quando disse ai microfoni che si sarebbe dimesso a fine stagione; Mourinho andato via in lacrime dopo il trionfo al Bernabeu, senza neanche far tappa a Milano per festeggiare con squadra e città nell’alba nerazzurra di San Siro, cosciente che la sua carriera sarebbe continuata a Madrid. Un copione già recitato dopo la vittoria della Champions sulla panchina del Porto, quando aveva già in tasca l’accordo con il Chelsea.

Rivali anche nello stile, M&M. Mourinho finito sulla prima pagina di GQ per il suo cappotto greige di Armani, che fu acquistato a un’asta di beneficienza per oltre 30mila euro, alcune migliaia in più dell’orecchino di Maradona messo all’asta dal fisco italiano. Mancini esaltato dal Sun per la sua sciarpa annodata come negli anni ’50, un vezzo imitato dai tifosi del City. E poi la lingua feroce, quella capacità di riempire il vuoto cosmico del mondo pallonaro tra una partita e l’altra. Furono schiaffi già nel 2012, quando Mou alla guida del Real attaccò Mancini, fuori dall’Europa già ai gironi: “E’ incredibile che una squadra con i campioni del City non si qualifichi per gli ottavi. Ammiro la pazienza di un club che supporta un allenatore sino alla fine del suo contratto…”. Come andarono i fatti, lo raccontò alcuni mesi dopo proprio il tecnico italiano al Sun, e furono parole al fiele per la dirigenza dei Citizens: “Alcune persone semplicemente non hanno il coraggio di parlare faccia a faccia. Potevano dirmi ‘Abbiamo trascorso quattro anni insieme, abbiamo vinto tutto, siamo felici, ma ora il tuo lavoro è finito’. Invece stavano lavorando alle mie spalle e mi hanno licenziato a due partite dalla fine della stagione”.

Mind games, raffinati giochetti linguistici per disturbare nemici prossimi o lontani. Un campo dove Mancini si difende bene, ma il re resta Mourinho, che non ha mai fatto un passo indietro dopo aver reso una dichiarazione. Da quella volta in cui a Leira, per commentare le ristrettezze economiche del club, disse d’essere “andato in Brasile a comprare i giocatori scambiandoli con noccioline e banane” alla “prostituzione intellettuale” post rigore contestato in Inter-Roma, che capovolse lo status di perseguitato e persecutore nei rapporti tra allenatore e stampa. Una differenza non da poco con il Mancio. Ieri l’allenatore italiano ha mantenuto un profilo basso: “Abbiamo giocato malissimo. Non abbiamo giocatori per competere a questo livello”. Mourinho probabilmente non avrebbe mai scaricato tutti i suoi giocatori, aggrappandosi a un fischio o chissà cosa. Forte del passaggio del turno, lo Special ha subito giocato al rilancio: “Non ho paura di nessuno”. Con due Champions in bacheca e alla ricerca del terzo hurrà continentale su tre panchine diverse – territorio finora inesplorato nella storia del calcio – non poteva che alzare il volume in attesa di conoscere l’avversario nei quarti. Il rumore del nemico, chiunque esso sia, va subito sovrastato.

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