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Carceri, i tanti Caino senza numeri in rubrica

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Caro Fabio Benini, lei era un assassino. Programmatore di computer di Forlì, a un certo punto ha cominciato a fare operazioni finanziarie spericolate: catene di Sant’Antonio telematiche per raccogliere denaro, società d’investimento. Il 14 febbraio 2001 ha ucciso a sassate il suo amico e socio in affari. Un delitto feroce per il quale è stato condannato a 16 anni di carcere. Fin qui la giustizia. Omicidio volontario e pena.

Poi c’è l’umanità, quella vera. Che deve valere anche per Caino. 
A un anno e mezzo dal suo arresto lei è morto, a 29 anni, nel Reparto di Osservazione Psichiatrica del carcere delle Vallette di Torino. In un anno e mezzo di prigione – lei anoressico – aveva perso 40 chili, dai 90 che ne pesava quando era entrato, dimezzando praticamente il suo peso corporeo. 

Possibile che nessuno se ne sia accorto? Possibile che nessuno sia intervenuto, sapendo che lei soffriva di disturbi dell’alimentazione e vedendola asciugarsi, spegnersi, giorno dopo giorno? Possibile che sia stato trasferito in una struttura sanitaria (carceraria) solo una settimana prima di morire, quando ormai era troppo tardi? Possibile che, di fronte a un deperimento psichico e fisico di questo tipo, non l’abbiano – non dico scarcerata – ma almeno salvata

Sono le domande – retoriche – che accompagnano il destino di tanti Caino reclusi nelle nostre carceri. Caino i cui corpi, reclusi in esecuzione di provvedimenti giudiziari, devono essere comunque tutelati dallo Stato cui, nei fatti, vengono affidati. Uno Stato in cui, per fortuna, non vige la pena di morte.

Invece c’è lei, Fabio, ci sono i detenuti malati di cancro che fanno la chemio in cella, gli anoressici e i bulimici non sottoposti a esami, fino ai Cucchi, agli Uva, agli Aldovrandi… Sono gli anonimi che si conoscono pubblicamente solo dopo, attraverso il dolore delle loro famiglie e alle loro battaglie civili, che finiscono sul giornale solo se muoiono, che non hanno mai frequentato i salotti giusti e non hanno in memoria i numeri di cellulare dei ministri, che non conoscono le “ragioni umanitarie”. I Santi, più che in Paradiso, bisogna averli sulla terra…

Il Fatto Quotidiano, 6 Novembre 2013

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