Qualche giorno fa il poeta e critico Kenneth Goldsmith ha pubblicato su “The New Yorker “un interessantissimo articolo dedicato alla poesia contemporanea internazionale, nel suo protendersi verso gli orizzonti di una società completamente digitalizzata, mentre è recentissima la pubblicazione in America dell’ultimo saggio di un’importantissima studiosa Marjorie Perloff, da sempre attenta alle contaminazioni tra poesia e tecnologie, intitolato Unoriginal Genius, anch’esso dedicato alle ultimissime mutazioni poetiche in ambiente digitale.

L’articolo di Goldsmith è particolarmente interessante poiché, prendendo spunto dal lavoro del teorico canadese Wershler e da quello di Perloff, si interroga sulla possibilità di realizzare (e di considerare certi ‘prodotti’ che girano su rete) poesie che siano, o, meglio che si comportino, come ‘meme’.

Un ‘meme’ è nella cultura ciò che nella genetica è un gene, cioè «un’unità autopropagantesi» di evoluzione culturale. E’ un virus che trasporta cultura e immaginario e che riesce a dinamizzarsi da sé, indipendentemente da chi l’ha prodotto, posto pure che sia possibile risalire al suo ‘autore’ o “inventore”.
Molte cose possono essere o comportarsi da ‘meme’, ovviamente. Una lingua, l’Iliade, una spezzone di frase, o un jingle, un modo di dire, un’intera ideologia e via così.

Per farla breve e darvi veloci esempi di ciò di cui si sta parlando in poesia e in letteratura, si va dalla traduzione in emoticon dell’intero Moby Dick a una serie di riusi, cut-up, traduzioni digitali (in Q.R.Code ad esempio: è stato fatto con l’intero Ulysses), o anche di remix e re-upload continui di testi di qualsiasi provenienza.

Il poeta Tan Lin, ad esempio, dopo aver condiviso su internet il suo poema Seven controller Vocabularies, ha incoraggiato i lettori a farlo a pezzi e a ricomporlo a loro gusto, o a tradurlo ‘digitalmente’, per poi farne l’upload su lulu.com noto sito di self-publishing realizzando un infinito poema permutazionale, del tutto indipendente dal suo autore e che si ‘autopropaga’.

Si tratta di ‘gesti’ più che di ‘testi’ poetici, ovviamente. Com’è chiara la loro parentela, magari lontana, con il ‘concettualismo’.
Ma, d’altra parte, la poesia è nata ben prima del testo, è nata proprio come ‘gesto’ e nessuno ci obbliga a pensare che non possa vivere anche dopo il testo, senza il testo, o a lato del testo.

La questione è particolarmente interessante, perché mette in campo due aspetti di radicale cambiamento a cui si sta esponendo la poesia contemporanea che tenti di uscire dalla pagina e vivere in ambiente digitale, entrambe collegate al suo presentarsi, in Rete, come ‘meme’, cioè come unità auto replicante e mutagena. 

Da una parte il ‘meme’ è, in sé, un’unità che tende a trasmettersi per delle sue qualità interne – e che si trasmette mutando, proprio come i geni – all’interno di una determinata cultura, o immaginario; un ‘meme’ , cioè, ha apparentemente a che fare proprio con il mito, o, perlomeno, con le sue dinamiche di formazione, e dunque con la poesia orale, penso ai suoi ‘appellativi’, al meccanismo citazionale e rapsodico che ne forma la struttura, alla ripetizione dell’identico, che hanno in essa una funzione fondamentale proprio per quanto riguarda la sua memorabilità, condivisione e trasmissibilità.

Il ‘meme’ sarebbe, cioè, l’anello (di Moebius?) che unisce l’Iliade a quel motivetto che ci ronza in testa da ore e che non riusciamo a scacciare dalla nostra mente. O a quei versi, naturalmente, o a quella stringa di testo che insistentemente si ripropongono nella nostra testa, o sullo schermo del nostro PC, senza traccia alcuna della loro provenienza.

D’altronde la gran parte degli esempi di meme-poetry citati nell’articolo di Goldsmith, o al centro delle ricerche di Perloff, mettono in crisi aspetti fondanti della poesia, almeno per come essa è stata concepita negli ultimi secoli: la sua ‘durata’ nel tempo e la sua ‘autorialità’, ad esempio.

La meme-poetry, tenderebbe a diffondersi viralmente nella rete, a rimbalzare – e a mutare rimbalzando – spesso anonima, o destinata all’anonimato, per poi, se non riesce a evolvere nella maniera giusta e adattarsi all’ambiente, eventualmente scomparire, senza lasciare traccia di sé.

Niente più autore, dunque, niente più ‘testo’ inteso come unità ‘finita e chiusa’, niente più Tradizione (ma anche niente più Avanguardia), niente più Canone, poiché non è possibile canonizzare ciò che scorre continuamente: piuttosto un inventario dei ‘meme‘ più efficaci, di quelli che, darwinianamente, sono stati capaci di adattarsi ed evolvere meglio, restando.

Ma non tanto e non solo nella memoria dell’uomo, quanto in quella della Rete: un’unità storicizzabile, cioè, ma non canonizzabile, non nel senso che noi diamo oggi a questo termine.

Magari a qualcuno può far spavento (o disgusto) tutto ciò, ma, d’altra parte, se fin nel sito di Poetry trova spazio un articolo della poetessa Vanessa Place intitolato Poetry is dead, I killed it, che non teme di suonare la campana a morto per la poesia, almeno per quella che conosciamo meglio noi oggi, quella su pagina, forse faremmo bene a farci su un pensierino, perché ciò di cui si parla qui non è tanto di questa, o quella poetica, ma di una mutazione strutturale dei contesti di produzione, distribuzione, ricezione, interpretazione di ciò che noi chiamiamo poesia.

Non si polemizza con i gap antropologici, è sempre meglio provare, piuttosto, a farci i conti e a immaginare nuovamente un futuro, anche se diverso da quello che ci aspettavamo.

Forse ha le sue ragioni Goldismith nell’invitarci, anche solo per attimo, a immaginare una poesia «vasta, istantanea, orizzontale, distribuita a tutti, priva di carta e, infine, eliminabile.».

Liberi di tornare poi agli anatemi pasoliniani contro la ‘tecnologia’, magari per trasformarli in ‘meme’ e diffonderli in rete. O per scoprire che si son già trasformati in ‘meme’ da sé. Che sono, anzi, i nostri ‘meme’ preferiti. Con buona pace di Pierpaolo.

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