Attenti perché il Leone d’Oro 2013 alla Mostra del cinema di Venezia, il cinema italiano se lo sta già facendo sfuggire. Gianfranco Rosi, quarantanovenne globetrotter del cinema indipendente contemporaneo, porta nelle sale italiane dal 19 settembre, grazie a Ubu distribuzioni, 40 copie del documentario Sacro Gra che ha appena trionfato, a sorpresa, al Lido. “Il premio veneziano è soprattutto per i miei 20 anni di carriera tutta formata all’estero”, spiega Rosi prima della proiezione in anteprima della sua creatura filmica al Biografilm festival di Bologna, “E ora mi prendo un anno di pausa. Me ne vado dall’Italia. Per un anno starò a Ginevra a insegnare cinema. Poi chissà, il Centro sperimentale di Roma, che non mi ha mai chiamato, si accorge di me e mi fa cambiare idea”.

Nessuna polemica per il regista nato in Eritrea, ma solo ironia, basata su alcuni dati oggettivi che hanno caratterizzato il suo lungo e importante percorso di cineasta dimenticato proprio dall’Italia. Trasferitosi nel 1985 a New York, dove si è diplomato alla New York University film school, Rosi ha prima girato per cinque anni in India il mediometraggio d’esordio Boatman (1993); poi le decine di ore di Below sea level (2008) riprese in una comunità hippie della California; infine El sicario room 164 (2010) due giorni fitti di riprese e 10 giorni di montaggio; e ancora i tre anni di perlustrazione e indecisione per comporre il Sacro Gra: “Ora non mi aspetto nulla da nessuno. L’aspettativa di per sé è una interazione sbagliata. Ho la doppia cittadinanza italiana e statunitense, e posso muovermi ovunque, anche perché non sento il peso dell’identità nazionale: il cinema è un linguaggio universale”. Poi aggiunge: “giuro che se Rai Cinema (produttore di Sacro Gra, ndr) mi chiedesse di fare qualcosa direi di no. Girare documentari è faticoso”.

L’indipendenza di pensiero e di azione Rosi se l’è conquistata sul campo con una carriera rigorosa e autonoma. Facile dribblare le critiche di qualche collega documentarista più ortodosso che lamenta l’artificiosità del Sacro Gra: “Cos’è il vero documentario? Michael Moore non lo fa. Forse è quello del National geographic. Racconto sempre questo aneddoto in merito: a New York davanti ad un videonolo una mamma terrorizza dice a suo figlio piccolo ‘scegli entri cinque minuti altrimenti noleggio un documentario’. A parte gli scherzi, se nei lavori precedenti ho filmato degli archetipi qui ho invece cercato una sfida narrativa precisa: non volevo una trama, né un inizio del racconto né una fine riconoscibili. E soprattutto non volevo che dei miei personaggi si sapesse o capisse nulla del loro passato, presente e futuro”.

Tendenzialmente self made man totale, con Sacro Gra Rosi ha accettato l’implicita sfida di un vero produttore, del supporto del finanziamento pubblico e di una storia sostanzialmente su commissione: “E’ vero, lo sanno tutti lo spunto è del paesaggista Nicolò Bassetti. La produzione pensò a me come a un regista che poteva raccontare visivamente quella storia. Io non ero convinto, perché ho un rapporto con Roma conflittuale. E’ stata la mia ex moglie a convincermi di girarlo. Ora gliene sono grato”.

E a vederlo mentre racconta dei suoi personaggi, non si stenta a credere l’emozione che ancora lo travolge per una vittoria come quella del Leone d’Oro che in Italia è toccata soltanto ai grandi del neorealismo e della commedia come, tra gli altri, Mario Monicelli, Roberto Rossellini, Gillo Pontecorvo, Michelangelo Antonioni: “Il momento più bello è stato quando tornando in treno a Roma dopo il festival, il capotreno mi ha riconosciuto dicendomi di avermi visto in tv con il premio in mano. Poi mi ha detto che nel vagone vicino c’era Bernardo Bertolucci (presidente di giuria a Venezia 2013, ndr) e mi ha invitato a raggiungerlo. Bernardo, un maestro assoluto, nel descrivermi Sacro Gra si è commosso. Poi mi ha detto che aveva visto tutti i miei film precedenti e che il premio era anche per il mio percorso di cineasta. Questo mi ha reso davvero felice”.

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