Il fenomeno “Casta” non esiste solo in politica, ma in molti altri settori, compreso quello dell’arte e della musica. Nel divertentissimo film Dove vai in vacanza?, l’incontro di Remo e Augusta (Alberto Sordi e Anna Longhi) con l’arte concettuale è forse l’emblema più fulgido della distanza siderale che intercorre tra il vasto pubblico e un certo modo di fare arte. Se la scena in cui la Longhi viene scambiata per una scultura vivente è assolutamente esilarante, davvero tragicomica è quella in cui i due “fruttaroli” romani assistono esterrefatti all’esecuzione del brano 4’33” di John Cage (4’33” di silenzio). A prima vista, potrebbe sembrare ragionevole sostenere che tale difficoltà di approccio derivi esclusivamente dalle umili origini dei due protagonisti. Eppure, oggi più che mai, lo stesso tipo di estraneità nei confronti di moltissima musica post-dodecafonica (concettuale, sperimentale, di ricerca che dir si voglia) viene manifestata apertamente – e soprattutto – da persone molto istruite. Chi di noi in fondo non ha solidarizzato almeno un po’ con i due “fruttaroli”, costretti ad ascoltare un concerto senza musica?

Nel tentativo di giustificare un’endemica mancanza di spettatori per questa musica, una delle argomentazioni più utilizzate da critici e compositori, è che il pubblico non sia in grado di capirla, né di apprezzarla, poiché non conosce i complessi codici compositivi che si celano dietro la sua genesi. Eppure le persone che ogni giorno affollano gli auditorium di tutto il mondo quando si eseguono autori come Vivaldi, Bach o Mozart (la cui musica è fortemente codificata), sono forse diplomate in composizione o conoscono a menadito il sistema tonale? Per godere di una rappresentazione del Lago dei Cigni di Tchaikovsky occorre essere dunque coreografi professionisti? Apprezzare Dante è forse possibile solo possedendo una laurea in letteratura tardo medievale? Per quale strana ragione, dunque, nel caso della musica contemporanea e dell’arte concettuale in generale, al pubblico dovrebbe essere richiesta una specifica preparazione tecnica (una patente) o un’adesione mistico religiosa ai precetti su cui si basa la particolare opera cui assiste? Se si considera poi che questa musica non ha in genere dei veri committenti, né tanto meno un pubblico con cui confrontarsi, viene il sospetto che, nei casi più estremi, ci troviamo vis-à-vis con un espediente usato dai compositori per porsi al di sopra di tutto e al riparo da qualsiasi tipo di osservazione critica, anche la più costruttiva.

Questo modo di fare musica ha ormai più di settant’anni, dominati in massima parte da esperimenti rumoristico-cacofonici e autocompiacimenti tecnicistici e se il pubblico diserta sistematicamente le sale, forse non ne ha tutte le colpe. Salvo rare eccezioni, questa filosofia musicale non ha prodotto grandi capolavori e ha finito con l’attrarre a sé personaggi interessati più alla speculazione linguistica che alla musica e all’arte come linguaggi. Atteggiamenti fortemente autoreferenziali e uno strutturale disinteresse nell’esplorare codici di comunicazione condivisibili da un vasto pubblico, hanno finito paradossalmente col riavvicinarlo alla musica del passato. Se direttori d’orchestra come Claudio Abbado, Riccardo Muti o Daniel Barenboim continuano a riempire sistematicamente i teatri di mezzo mondo, verrebbe davvero il desiderio di dire affettuosamente a Remo e Augusta di non nutrire troppi complessi d’inferiorità se non capiscono il concerto di Cage. A ben vedere, i due protagonisti dell’episodio Vacanze Intelligenti, hanno dell’arte contemporanea e di questa musica in generale, la stessa opinione di pensatori come Claude Lévi-Strauss, Martin Heidegger, Roman Vlad o Theodor W. Adorno, solo per citarne i più noti.

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