Lunedì scorso, il 10 dicembre, ci ha lasciati Vittoria Ottolenghi. Non a caso dico ‘ci ha lasciati’ e non ‘è morta’. Perché la prima sensazione che ho avuto quando l’ho saputo, è stata proprio quella che mi avesse lasciato qui, un po’ più sola di quanto ero prima. Mi manca Vittoria, manca a me e ai molti che hanno amato ed amano la danza.

Mi è capitato più di una volta di riaccompagnarla a casa dopo uno spettacolo e di ascoltare in anteprima le sue critiche a quello che aveva visto. Mai scontate. Mai banali. Lei che era in grado di amare tutta la danza, in tutte le sue espressioni, senza distinzioni di generi, senza mai dividere la danza tra quella collocabile nella cultura ‘alta’ o nella cultura ‘bassa’. Lei che era amica di Nureyev e amava Gades, che si entusiasmava per l’hip-hop e scriveva sullo spettacolo ‘en travesti’. Lei che amava, anche in età avanzata, fare delle nuove scoperte e sostenere giovani autori.

Mi manca la sua apertura mentale, ancor più oggi che ancora siamo a disquisire se è danza o balletto, se è teatro o danza, se è contemporaneo o moderno. Ma chi era Vittoria Ottolenghi? Proverò a raccontarla in poche parole, per chi non la conoscesse.  Era una giornalista, saggista, critica. Considerata tra le più autorevoli esperte di danza del nostro paese. Ha collaborato come critica di danza con Paese Sera, Il Mattino, Il Resto del Carlino, L’Espressoe molti altri giornali e riviste specializzate. E’ stata l’autrice della sezione danza e teatro musicale dell’Enciclopedia dello Spettacolo di Silvio D’Amico.

Ma soprattutto è stata la geniale ideatrice di Maratona d’Estate, un programma andato in onda su Rai Uno per più di vent’anni. Un programma che ha fatto conoscere la danza a milioni di persone che prima ne ignoravano l’esistenza. Perché come scriveva lei stessa nella presentazione della ventunesima edizione, “prima di Maratona d’estate la danza era un fatto di élite, in Italia, e poteva contare su poco più di cinquantamila spettatori in tutto. Dopo la Maratona almeno due milioni di italiani hanno acquisito il gusto e il piacere di un’arte – la danza – specialmente adatta al nostro tempo, perché visuale, dinamica, internazionale e di vocazione interdisciplinare.”

Per vent’anni nelle case degli italiani all’ora di pranzo ha fatto entrare la grande danza, tutta, avendo come parole d’ordine qualità e molteplicità. Ha fatto danzare sugli schermi delle nostre caseBalanchine e Pina Bausch, Joaquin Cortes e Baryšnikov, Merce Cunningham e Bob Fosse, i Pilobolus e Twyla Tharp.

Per questo mi manca. Quindi nel salutarla non posso che augurarmi che ci siano non uno, ma molti giovani critici pronti a prendere il suo testimone e ad amare la danza con la sua stessa vitalità, ricordando la sua risposta alla domanda sul perché amasse la danza: 

“Perché è l’unica attività umana, oltre all’amore in alcuni casi, non poi così comuni, in cui l’uomo è lì tutto. Fisico, mentale, sentimentale. Perché è effimera, l’unica cosa che puoi salvare sono brandelli della memoria, ma che brandelli signori!”

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