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La pericolosità delle parole urlate

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E’ una gara a chi grida di più, a chi usa parole più forti. Come se gridare rafforzasse la ragione. Ma quando si alza il volume, quando gli insulti e le insinuazioni prendono il posto degli argomenti, quando l’intolleranza sovrasta il pensiero, i risultati non possono che essere questi: un degrado culturale, un imbarbarimento civile, sociale, politico.

Non conta più l’argomentazione, la capacità di coinvolgere e di convincere, ma usare le parole in modo distruttivo.
E’ come se avessimo abbandonato il punto di vista per abbracciare ciecamente una “scelta di campo”. Come un atto di fede. E la fede  può fare tranquillamente a meno della conoscenza e dell’esperienza.

Perché non ha bisogno di verità rilevate, ma solo di verità rivelate. Da un microfono, da uno schermo 16:9 o dalla tastiera di un computer. Non c’è bisogno di chi pone domande cercando risposte, ma di custodi dell’ortodossia che insultano chi la pensa diversamente.

Il dogma che si nutre di se stesso e l’intolleranza verso le idee diverse, rappresentano l’embrione del totalitarismo. Un totalitarismo che certo non marcia in divisa, ma corrode le coscienze, facendole piombare in quel sonno della ragione di cui parlava Norberto Bobbio.

Per vent’anni abbiamo ascoltato, inerti, volgarità di ogni genere: da chi parlava di sparare sui barconi degli immigrati, a chi dava del coglione agli elettori, passando per insulti e offese di tutti i tipi. Ma sembra che al peggio non ci sia mai fine. Una cosa è certa: nell’eclissi del pensiero inizia la parabola discendente di una civiltà. Varrebbe la pena rifletterci prima di proseguire per la stessa strada.

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