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Il linguaggio della politica, una questione di attributi

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La coincidenza è singolare: a dieci anni esatti di distanza i “coglioni” tornano a colorire il frasario politico. Era il 3 luglio 2002 il giorno in cui il ministro degli Interni Claudio Scajola si dimise per le sue dichiarazioni sull’economista Marco Biagi ucciso dalle Br che aveva definito “rompicoglioni” in un colloquio informale con i giornalisti.

Ieri il vulcanico deputato Idv Francesco Barbato, non nuovo a escandescenze verbali ha urlato in aula ai colleghi della maggioranza: “Avete rotto i coglioni”. A Scajola l’infelice uscita è costata il posto, a Barbato l’espulsione dall’aula.

Anche in un caldo aprile di qualche anno fa l’allora premier Silvio Berlusconi ne fece una questione di attributi: “Ho troppa stima per l’intelligenza degli italiani per credere che ci possano essere in giro tanti coglioni che votano per il proprio disinteresse” (a sinistra, ndr).

La sempre compita Daniela Santanchè, critica nei confronti di Gianfranco Fini, allora leader di An, e di coloro che nel partito, a suo dire, erano troppo inclini ad accettare tutte le decisioni del capo sentenziò garbatamente: “ci sono troppe “palle di velluto”
E come dimenticare il prode Borghezio e il suo “musulmani fuori dai coglioni”?

Volgarità o genuinità? La parolaccia come indice di depauperamento culturale o gesto liberatorio?  Una nuova dinamica espressiva o lo specchio di una politica che non sa più argomentare?
Forse bisogna prendere atto che il linguaggio è inesorabilmente cambiato e tra i salotti televisivi i politici si sono conformati al linguaggio imperante nelle corride, convinti che un efficace turpiloquio possa ravvivare il rapporto con le masse.

O magari si tratta solo di omaggi involontari ai pittoreschi sonetti di Gioacchino Belli e Trilussa.
O semplicemente è colpa delle alte temperature se i coglioni vengono fuori…

Twitter: Stefano Corradino

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