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L’etica e le buone maniere

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Una mia cara amica mi disse anni fa: “In fondo i tuoi seminari non sono un po’ corsi di buone maniere?”. La differenza: mentre insegnare l’educazione si basa su norme, regole di comportamento – appunto quelle che definiamo “beneducate” – allenare modi di comunicare consapevoli, costruttivi, compassionevoli si basa sul sentire, sullo sviluppo dell’empatia. Sono modalità diverse, e parleremo in altra occasione delle motivazioni storiche di entrambe.

L’empatia tuttavia non la posso sviluppare se sto sulla difensiva, in ansia che il mondo intorno a me non sia come io ho bisogno che sia, per riuscire a sentirmi al sicuro. In altre parole: in genere se sento paura o ansia non sono empatica. Non sento, malgrado i nostri famosi “neuroni specchio”, le intenzioni dell’altro (buone, dal suo punto di vista) nemmeno con l’immaginazione.   

Ecco che il problema è: come possiamo riuscire a basare sul sentire un’etica che ci pare dunque cosi fragile, in una società tanto ansiosa, dove stare sulla difensiva è quasi un comportamento quotidiano, “normale”. Come? Lavorando sui meccanismi della mente che producono, in noi, il bisogno di stare sulla difensiva, su come pensiamo per sentire paura.

Tanti anni fa il sociologo Peter L. Berger, nel suo Invitation to Sociology. A Humanistic Perspective, scriveva fra l’altro che nel dibattito sociologico americano il termine tedesco “Verstehen” (in italiano: “capire, comprendere”) non viene tradotto, ma usato come un termine “tecnico” e significa “capire la situazione nel complesso, compresi i punti di vista e le motivazioni delle altre persone coinvolte”.

Un altro sociologo, Richard E.Nisbett, parla dell’”errore fondamentale di attribuzione”, intendendo la generale tendenza ad attribuire le cause del comportamento di un altro a caratteristiche interne alla persona, mentre, se il comportamento è “il nostro” siamo in grado di sentire le nostre buone ragioni o come la situazione ci ha spinto a fare come abbiamo fatto, e non altrimenti. Esempio: se vedo un collega che fa una pausa in ufficio posso pensare “che fannullone!”, se la faccio io sento che ne ho bisogno, che mi fa bene, ogni tanto, ricaricarmi, e anzi sono contenta di essere in grado di rilassarmi.

Quando facciamo attribuzioni causali del tipo “è un timido”, o un lavativo, oppure è “aggressivo” la nostra mente si focalizza su questa spiegazione, che ha il pregio di semplificare le cose, ma non vede la complessità della situazione. Per cui se appioppo giudizi in automatico probabilmente non comprenderò, nel senso forte di “Verstehen” la situazione.

Che c’entra col nostro tema?
Se penso: “la nostra società di oggi è intrisa di paura e piena di barbari”, sentirò il bisogno di stare sul chi vive. Se mi alleno a non usare etichette giudicanti, o almeno ad accorgermene se lo faccio, posso osservare con maggiore distacco e descrivere dentro di me quel che vedo, evitando appunto di identificarmi con le mie attribuzioni: “nella nostra società vedo molti che si comportano in modo che tenderei a definire aggressivo, ma che forse per chi lo attua è difensivo”. E sarà meno difficile sentire la frustrazione e il malessere dietro ai comportamenti che pure non ci piacciono.  

Osservare in modo distaccato, sospendendo l’abitudine di dare automaticamente un giudizio a ogni cosa, è secondo il filosofo Jiddu Krishnamurti la forma piu sviluppata di intelligenza umana. Per chi vuole approfondire, può farlo qui

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