I sondaggi e la (rara) stampa non montilatrica stanno registrando la crescente disillusione degli italiani nei confronti dei sobri tecnici super partes chiamati al salvataggio del Paese.

Mentre, tra smargiassate verbali e concrete scelte punitive delle fasce deboli, si finisce (inconsapevolmente?) per favorire disunione. Perciò merita maggiore attenzione quanto si sta facendo nel laboratorio che si fregia del sostantivo in controtendenza: il ministero della Coesione Territoriale, guidato da Fabrizio Barca. Tuttavia, dal punto di vista della cultura politica, l’elemento davvero innovativo sta piuttosto nell’aggettivo (“territoriale”): il vero valore aggiunto smarrito dal dibattito pubblico nazionale. Da tempo immemorabile. Ossia la riscoperta che non esiste una via univoca allo sviluppo, in particolare nell’Italia dei cento campanili e dei mille genius loci. Il concetto testardamente ripetuto dal decano dei socio-economisti nazionali Giacomo Beccattini: “La storia e la geografia di un Paese contano, perbacco!”.

Sembra evidente ma non è così. Chi scrive ricorda ancora le accese discussioni quasi mezzo secolo fa con gli allievi di Pasquale Saraceno, quando gli magnificavano gli investimenti siderurgici in Puglia (e le sue ricerche sul campo segnalavano la nascita di un corpo estraneo, che creava solo indotto commerciale in quanto non metabolizzato dallo spirito del luogo). Poi si è visto come è andata. Ma ce lo facevano già prefigurare le indagini sullo sviluppo locale di Alfred Marshall nella seconda decade del XX secolo. Perciò piace constatare che il ministero di Barca esce dalle logiche centralistiche presentando la propria funzione quale “integratore multilivello”, secondo il metodo del confronto, tra attori orizzontali (istituzioni di territorio, sistemi d’impresa, cittadini organizzati) e verticali (soggetti di governo). Sempre nella consapevolezza che esistono in ogni luogo peculiarità e sa-peri da portare a vantaggio competitivo.

Per dire: la tradizione meccanica emiliana da orientare alla meccatronica come l’integrazione tra tecnologie genovese (qui si costruivano navi e locomotive) da virare a robotica o infomobilità, l’alimentare da industrializzare nel Mezzogiorno o l’antico artigianato liutaio a Cremona da rilanciare nella riscoperta mondiale della manualità come “mentedopera”. E così via. Va detto che, al servizio di una politica di accompagnamento di questo tipo, risorse ce ne sarebbero. Nonostante la crisi.

L’Unione europea mette a disposizione, sotto forma di “fondi strutturati”, ben un terzo del proprio bilancio. Per l’Italia, nel periodo 2007-13, ha comportato l’assegnazione di 28, 8 miliardi di euro. Purtroppo, andando dietro alla follia mediatica delle Grandi Opere e ai giochini della finanza creativa, siamo risultati pessimi in quanto a utilizzo di tali fondi: penultimi in Europa, davanti alla sola Romania. Ora, se non si migliorerà la capacità negoziale nei confronti dell’Unione esibendo concreti successi conseguiti, siamo pure a rischio di subire tagli negli stanziamenti a nostro vantaggio da parte di Bruxelles. In sostanza, la coesione si favorisce incrementando opportunità: crescita materiale e inclusione sociale. Quindi l’azione di governo deve accompagnare queste opportunità andandole a cercare dove si creano (o dove ci sono le condizioni perché si creino). Questa è la logica proposta dal team-Barca. Silenziata dalle battute irritanti sulle “caramelle” della Fornero e su “l’erba voglio” di Gianfranco Polillo. E c’è pure da capire quale scuola di pensiero prevarrà nella compagine ministeriale.

Se l’idea che lo sviluppo si attiva grazie alla tesi singolare che più si licenzia più cresce l’occupazione, oppure quella che ci sono pianticelle preziose da irrorare. Intanto l’economia non sta a guardare: nel 2011 la Germania ha recuperato per intero il calo produttivo degli anni precedenti e la Francia all’ 80 %. L’Italia non supera un misero 30. Con evidenti impatti sulla creazione di nuovo lavoro.

Il Fatto Quotidiano, 8 Aprile 2012

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