Non c’è reciprocità. Woody Allen viene a Roma a girare un film e giustamente tutti gli aprono le porte, mentre io a New York ho potuto portare solo un italiano su una troupe di 150 persone…”. Se la prende con le norme che regolano le coproduzioni con gli Stati Uniti Roberto Faenza, cineasta di vocazione apolide e interessi raffinati, sfuggente per natura alle etichette del cinema a compartimenti stagni di casa nostra. In uscita oggi con Un giorno questo dolore ti sarà utile, sua seconda pellicola americana a quasi trent’anni dal cult Copkiller, solleva un problema reale che rischia di passare in secondo piano a causa della generale e insana chiusura dell’industria dello spettacolo italiana.

Se qualche coraggioso volesse avventurarsi in una coproduzione con gli States conviene che prima legga Un giorno quest’America – Diario avventuroso di un regista italiano nell’America di Obama (Aliberti editore, Roma, 2012), giornale di bordo tenuto durante i due anni complessivi di lavorazione. Attraverso racconti lampo, ricordi, incontri eccellenti, squarci sul sociale, ma soprattutto sul sistema Hollywood, l’autore spazia dalla tecnologia alla politica, restituendoci un Paese affascinante e illogico in cui, da un momento all’altro, potresti trovarti con il film bloccato dal figlio di Jimmy Hoffa (1913-1975), fondatore del potentissimo sindacato dei Teamsters e più volte sospettato di avere rapporti con la malavita (sullo schermo ha avuto il volto di Jack Nicholson in Hoffa: santo o mafioso? di De Vito e ha ispirato il dimenticato F.I.S.T. di Norman Jewison).

Vale la pena raccontare il fatto per intero. In seguito ai rimproveri mossi ad alcuni membri della troupe, una mattina, il regista viene convocato da una delegazione delle union, presiedute appunto da Hoffa Jr., che ha deciso di fermare la lavorazione della pellicola: “Mi impongono di chiedere scusa in stile vagamente littorio. «Apologize», questo il termine richiesto dalla delegazione. […] Non ho nessuna intenzione di chiedere perdono di fronte a questa specie di tribunale improvvisato. Decido di bluffare. Dico che se insistono, noi leviamo le tende e andremo a finire il film in Canada. Alla parola Canada, la fermezza della delegazione vacilla. Così, di fronte alla prospettiva di far perdere l’occupazione ai loro stessi associati, viene patteggiata una soluzione onorevole per entrambi” (p. 87-88).

Per quanto riguarda il funzionamento di questi strani sindacati che il libro ha il merito di rendere noto, il discorso è semplice: in produzioni al di sotto del milione e mezzo è possibile assumere chiunque, sopra quel limite, invece, possono essere impiegati solo membri appartenenti alle union, “la cui contraddizione più eclatante – scrive Faenza – non è fissare regole e restrizioni il più delle volte assurde, ma non proteggere i lavoratori quando non lavorano. Infatti se la produzione decide di non lavorare un giorno, la troupe resta a casa senza essere pagata” (p. 56-57).

Proprio per la sua natura diaristica, la scrittura ha toni urgenti che cambiano colore di argomento in argomento: è divertita, impegnata, riflessiva, didattica, esaltata, aneddotica, scorata, non di rado sbalordita, soprattutto quando racconta di una burocrazia verso cui nulla può il buonsenso. In ciò è parecchio differente dal film tra le pause del quale nasce, il più fluido e omogeneo del cineasta da molto tempo a questa parte. Ispirato all’omonimo romanzo di Peter Cameron e con un cast di cui fanno parte Marcia Gay Harden e Toby Regbo, Un giorno questo dolore ti sarà utile mette in campo il diciassettenne James Sveck, novello giovane Holden alle prese con una famiglia a dir poco disfunzionale. Gli danno fiato l’intenso rapporto con Nanette, nonna-amica interpretata dalla grande Ellen Burstyn, e gli incontri con la life coach/psicoterapeuta di Lucy Liu. A proposito, l’italiano che Faenza ha voluto con sé nella Grande Mela è Maurizio Calvesi, autore della luminosa fotografia.

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